Tra le tante
discussioni che ogni giorno vengono innescate nel nostro Paese da dichiarazioni
estemporanee, alcune volte surreali, di esponenti politici, ce n'è una molto
seria, perché proviene da un ministro che è anche un uomo di valore, ex
vicepresidente dello Svimez, Giuseppe Provenzano, fatta ad un convegno
dell'Huffington Post e della Fondazione Feltrinelli su Milano come città
europea: “La sua centralità, importanza, modernità e la sua capacità di essere
protagonista delle relazioni e interconnessioni internazionali non restituisce
quasi niente all'Italia ...”.
Provenzano non è un ministro qualsiasi, uno di
quegli uomini politici che in questi anni di crisi le classi dirigenti sfornano
soprattutto intrattenere nei talk show televisivi il popolo dei
like, che
continua la millenaria tradizione del pollice su/pollice giù, secondo i propri
umori intestinali. Provenzano è un uomo che sa. Ha studiato a fondo la
questione meridionale che ci trasciniamo dall'Unità d'Italia, l'ha interpretata,
l'ha governata in qualche modo, ma l'intreccia, forse inconsapevolmente, ad un
fenomeno più recente, che ha a che fare, come il Sud del resto, con il suo
Ministero: la competitività su scala globale di quei poli di aggregazione
totale che sono diventate le grandi città.
Dovrebbe sapere che oggi la
questione meridionale, a causa di questo intreccio, non è più declinabile come
cinquant'anni fa, anche se il Sud continua più di allora a spopolarsi, a
impoverirsi, a perdere le migliori energie e intelligenze, che vanno altrove:
viviamo in società sempre più globalizzate ed oggi Milano, intesa come grande
agglomerazione produttiva di beni e servizi materiali e immateriali, compete
con Berlino, Parigi, Londra, New York, San Francisco, ecc. , oltre che con il resto
del Paese. Ed è a quel livello che bisogna mettersi per discutere e prendere
delle decisioni consapevoli.
Certamente gli
Stati nazionali contano ancora per la distribuzione delle risorse, ma sempre
meno. Di conseguenza contano, molto più di qualche decennio fa, i territori e
le classi dirigenti locali che sanno promuoverli, anche facendo riferimento a
politiche nazionali ed europee, nel caso nostro, ma valorizzando al massimo le
vocazioni locali, il “genius loci” che ognuno custodisce, mettendoli in condizione
di produrre beni materiali e immateriali. Se occorre, e da noi certo occorre,
sollecitando le classi dirigenti nazionali a decidere in un'ottica
redistributiva sul piano territoriale, ma assecondando le eccellenze, non
deprimendole: un difficile, ma necessario equilibrio.
Il che significa quindi
anche indurre a fare altrettanto quei territori, e le loro classi dirigenti,
che si impoveriscono sempre più, non solo in ambito nazionale, ma
internazionale. Tutto ciò superando vecchie pratiche basate sul livellamento
forzato e sulla “restituzione”, che erano già problematiche, alcuni esperti
dicono sbagliate, quando lo Stato Nazionale era “a somma zero” e la
globalizzazione ancora agli inizi. Erano problematiche già allora perché
favorivano lo sviluppo di una deprimente mentalità assistenzialistica, di un
vittimismo diffuso, di una ricerca sempre esterna di responsabilità.
Faccio solo un
esempio. Il F.M.I. sta svolgendo ricerche sulle diseguaglianze territoriali in
tutto il mondo e si è permesso il lusso di analizzare anche le diseguaglianze
all'interno dei singoli Stati, facendo notare che il reddito pro-capite del
Trentino-Alto Adige (il reddito, non il consumo) è il doppio di quello della
Sicilia. Il Trentino-Alto Adige non è Milano: dispone di risorse territoriali
interamente montane, basate su una difficile agricoltura e sul turismo, oltre
ad un poco d'industria. Riceve finanziamenti dallo Stato centrale più alti
delle altre Regioni, in quanto Regione autonoma con minoranze linguistiche, ma
non più alti della Sicilia, altra Regione autonoma.
Ma evidentemente “fa
sistema” ed è organizzata a tal punto da sfruttare al meglio anche i
finanziamenti europei, che arrivano solo sulla base di progetti credibili di
sviluppo, che invece la Sicilia non sfrutta che in minima parte. La differenza
consiste anche nel fatto che la Regione Sicilia ha un tasso preponderante di
spese correnti, perché gran parte delle risorse vengono impiegate per
l'assunzione, per motivi politico/clientelari, di personale in buona parte improduttivo
e consuma ricchezza, mentre il Trentino – Alto Adige ha a bilancio una
percentuale consistente di investimenti pubblici che fanno da volano a
investimenti privati, insomma produce ricchezza, cioè l'esatto contrario. E
riesce a trattenere anche risorse umane preparate da Università di ogni parte
d'Europa, oltre che da quella di Trento.
L'espressione
che mi colpisce nel discorso di Provenzano è quel verbo “restituire”. Che
significa veramente? Che Milano si appropria delle risorse del Paese intero, comprese
quelle umane, e questo fatto impoverisce gli altri territori, soprattutto il
Sud, per cui c'è un problema non affrontato di giustizia territoriale? Vorrei
che il ministro spostasse per un attimo l'attenzione dai consumi per posarla
sulla produzione di beni e servizi, compresi quelli culturali. È così vero che
Milano attrae e trattiene tutto come i buchi neri e non riverbera altrove le
proprie competenze? Forse non è il caso di dare giudizi affrettati, ma scavare
di più e meglio.
Chi produce più ricchezza in questo Paese deve essere per
forza penalizzato dalle politiche pubbliche e indicato a dito come se fosse un
parassita? Non basta che versi all'erario le imposte progressive, come da
Costituzione, con minore evasione rispetto ad altri: Irpef, Ires, Irap, e
mettiamoci anche l'Iva, in misura tale da rappresentare essa stessa un fattore
di redistribuzione?
Nella querelle
si inserisce con grande tempismo anche il “Messaggero” di Roma che
sostanzialmente accusa Milano di portare via risorse alla Capitale. Questa
discussione rischia di raggiungere livelli da stadio. Non basta che con gli
altri Comuni, quindi con tutti i contribuenti italiani, Milano versi ogni anno
300 milioni di Euro alle casse languenti di Roma Capitale? Si ritiene un
trasferimento di ricchezza improprio il fatto che, data la maggiore efficienza
degli ospedali milanesi e lombardi, molti cittadini delle altre regioni, e del
sud in particolare, vanno a farsi curare a Milano? Si ritiene un ladrocinio il
fatto che, avendo Torino rinunciato per decisione politica alla cogestione con
Milano e Cortina delle Olimpiadi invernali, sono rimaste solo Milano e Cortina
ad organizzarle avendone i relativi vantaggi?
Si ritiene un'offesa (a chi?) il
fatto che i terreni e le infrastrutture dell'Expo, dopo quell'evento che
interessò tutto il mondo e rappresentò una spinta alla globalizzazione del
sistema Italia, oggi nasce una struttura come Human Technopole su iniziativa
del Comune, mentre qualche anno fa gli attuali governanti di Roma decisero,
senza alcun motivo, di rinunciare persino alle Olimpiadi, che avrebbero
innescato una riqualificazione di diverse aree della città e delle reti di
trasporto? Noi siamo gente con un po' di senso pratico: siamo interessati a ciò
che si fa ed al come si fa, lo siamo meno alle giustificazioni postume cariche
di sospetti e di vittimismo per ciò che non si fa.
Se abbiamo nel nostro Paese
un serio problema di inadeguatezza della classe dirigente nazionale, ne abbiamo
un altro, forse ancora più grave, di una eccessiva differenza culturale tra le
classi dirigenti locali. A metà degli anni Novanta del secolo scorso Milano
era, per quanto riguarda il trattamento dei rifiuti, nelle stesse condizioni
della Roma attuale. La risposta fu una decisione concorde di tutte le
rappresentanze politiche di ricorrere all'aiuto di altre città copiandone i
modelli, soprattutto a Bologna.
Cosa impedisce a Roma oggi di fare la stessa
cosa? Cosa le impedisce di studiare le municipalizzate di Milano e Brescia, o
di altre città all'avanguardia, mettendo insieme rifiuti, trasporti, acqua ed
elettricità, in una gestione comune che redistribuisca costi e benefici tra i
diversi servizi e magari, col tempo, porti persino in Borsa unitariamente le
aziende municipali per una gestione più trasparente dell'attuale ed un afflusso
regolato anche di risorse private?
Cosa impedisce a grandi città come Napoli,
Bari, Palermo, Catania di fare la stessa cosa cercando di diventare dei poli di
aggregazione di forze produttive, di attrazione di servizi, di cultura, frenando
il processo di spostamento di risorse umane di alto livello non solo verso
Milano, ma verso Parigi, Londra, Berlino, New York, ecc.? Non siamo così
ingenui, lo sappiamo. Ci sono molte più derive locali che esterne ad impedirlo,
e non solo culturali. Ma le classi dirigenti devono avere visione e coraggio
per rimuovere gli impedimenti. Che ci stanno a fare sennò?
Una quarantina
di anni fa, per parlare di una realtà che conosco meglio, quando Brescia,
allora grande polo industriale siderurgico e meccanico, cominciò a perdere
colpi per l'irrompere sui mercati di Paesi meno avanzati del nostro, ma più
aggressivi, posò lo sguardo su Milano che appariva come un Moloc dei servizi
sociali e finanziari e della produzione di cultura.
In un primo momento cercò
una competizione che sarebbe stata distruttiva per Brescia, poi nacque una
collaborazione che portò ad una moltiplicazione delle vie di comunicazione tra
le due città, ad una diversificazione delle vocazioni produttive, ad una
utilizzazione reciproca che portò persino alla nascita di università bresciane
per gemmazione da Milano e successivamente ad una fusione delle due grandi
aziende municipalizzate. Ora i due sistemi, pur nella loro diversità, sono
parzialmente compenetrati. E sono ambedue abbastanza forti in Europa e nel
Mondo. E non disdegnano di attrarre immigrati da altri Paesi, cercando di
favorirne l'integrazione, avendo scoperto che sono, per diversi aspetti, una
risorsa irrinunciabile.
Ci sono certamente dei meccanismi perversi di
distribuzione territoriale, in particolare tra il Nord ed il Sud. Alcuni sono
ereditati dal passato, altri sono creati dalla rapidità e dalla violenza dei
processi di globalizzazione, che amplificano le vecchie fratture tra i
territori e ne creano di nuove. Ma sono le classi dirigenti che se ne devono far
carico senza presunzione e senza vittimismi. Per non subirli hanno due
strumenti sui quali far leva: una cultura all'altezza della complessità del
mondo attuale, una partecipazione trasparente dei cittadini, che comporti l'abbandono
di vecchie pratiche di potere basate solo sulla ricerca immediata del consenso.
È su questo che in primo luogo bisogna lavorare al di là delle polemiche che
assomigliano molto alle baruffe tra polli, delle quali scrive il Manzoni nel
lontano ottocento.