La politica economica del
“Governo del Cambiamento” punta molte delle sue carte sullo sviluppo inteso
come crescita del PIL, ma anche come miglioramento della coesione sociale
legata al sostegno alle classi più deboli.
Le due misure bandiera, il
reddito di cittadinanza e la pensione con quota 100, promettono progressi nel
campo della coesione sociale, ma solo indirettamente sulla crescita del PIL. Infatti,
esse producono uno stimolo dei consumi derivante da un lato dagli incrementi
del reddito disponibile per la platea dei beneficiari e dall’altro dalla
sostituzione dei lavoratori anticipatamente pensionati con nuovi dipendenti a
loro volta titolari di ulteriore reddito disponibile.
I consumi sono certamente lo
strumento più immediato e veloce per alimentare il PIL, soprattutto se le
misure di sostegno vengono applicate alle classi sociali con maggior
propensione al consumo, tipicamente le classi più deboli quali disoccupati e
nullatenenti. Tuttavia gli effetti moltiplicativi dei consumi sono abbastanza limitati
dal momento che, pur alimentando la domanda interna con cicli di circolazione
dei flussi finanziari che si riproducono a cascata in tutti i settori
dell’economia reale, l’onda espansiva si esaurisce presto, andando invece ad
alimentare alla fine dei cicli il risparmio (vedi effetti del contributo ex DL
66/2014, gli 80 €/mese) e in definitiva la massa monetaria e finanziaria
inattiva parcheggiata nelle istituzioni creditizie e di cui oggi il nostro
Paese dispone già in abbondanza, senza per questo riceverne significativi
contributi allo sviluppo.
Quindi è chiaro che per attivare
una crescita strutturale e duratura del PIL servono ulteriori strumenti che
vadano oltre la mera stimolazione della domanda interna, facendo ricorso a
tutte le principali componenti di determinazione del Reddito Nazionale e del
Prodotto Interno Lordo.
Conviene ricordare che, in base
alle definizioni condivise dagli istituti di statistica di tutti i paesi ad
economia di mercato o mista, oltre ai consumi, le principali grandezze che
concorrono col segno positivo alla formazione del PIL sono la spesa pubblica,
le esportazioni e gli investimenti. Tuttavia, i moltiplicatori di reddito ad
esse associati e soprattutto i tempi di sviluppo dei loro effetti sono assai
diversi.
Ad esempio, nessuno oggi pensa
che la spesa pubblica possa essere considerata lo strumento preferenziale per
attuare politiche di sviluppo, soprattutto per un Paese come l’Italia con un
debito pubblico esagerato cui non è possibile aggiungerne ulteriore derivante
da politiche di deficit spending come
generosamente utilizzate nel corso della storia per far uscire l’economia
mondiale da gravi crisi finanziarie a partire da quella del 1929. Tuttavia, una
spesa pubblica virtuosa, perché indirizzata verso investimenti strutturali,
viene universalmente riconosciuta come strumento utile per promuovere sviluppo,
anche se con tempi di ricaduta assai lunghi.
Nella promozione dello sviluppo
meglio lavorano le esportazioni. Infatti, è ormai risultato acquisito della
teoria economica, fin dai tempi dell’economia classica, che la crescita indotta
dalle esportazioni sia di ottima qualità, perché con effetti immediati e
soprattutto durevoli con elevati moltiplicatori, andandosi ad innestare su
flussi economici e finanziari già presenti e producendo quindi miglioramenti
per le imprese e a cascata per tutti i fattori di produzione. In effetti il
nostro Paese è sempre stato sicuro protagonista del commercio mondiale, ma le
guerre tariffarie e doganali che si sono aperte sul mercato globale rischiano
di sgonfiare questo importante flusso di reddito, vanificando il suo positivo
contributo allo sviluppo.
Conviene quindi concentrare
l’attenzione delle politiche economiche sugli investimenti, non prima però di
aver fatto un po’ di chiarezza sul vero significato di questa grandezza che
spesso viene usata a sproposito, andando ad accomunare sotto lo stesso
aggregato tipologie di intervento con caratteristiche molto diverse.
Cominciamo con l’escludere dagli
investimenti che meglio promuovono lo sviluppo tutti gli investimenti
finalizzati ad ottenere rendite finanziarie, immobiliari e di posizione. È
chiaro che anche le rendite costituiscono ai fini della contabilità nazionale
reddito, ma si tratta di reddito per alcune classi sociali con alta propensione
al risparmio piuttosto che al consumo e con un limitato effetto moltiplicatore.
Infatti, i flussi finanziari che ne derivano vengono prevalentemente
parcheggiati sul mercato finanziario in attesa di nuove opportunità di
investimento a rendita e solo raramente vengono indirizzati verso l’economia
reale.
Di fatto questo tipo di
investimenti produce ancor meno sviluppo dei consumi, soprattutto in Italia
dove, esauritasi la virtuosa parabola della ripresa economica del secondo
dopoguerra, le seconde generazioni, e ora anche le terze, della classe
dirigente dimostrano di apprezzare assai di più le rendite finanziarie del
mercato globale rispetto al rischio di impresa praticato dai loro nonni.
Inoltre, già a partire dagli anni
’80, pur con tassi di inflazione e di interesse a doppia cifra e forse proprio
per questo, un mercato creditizio molto generoso si è sostituito ai mezzi
propri nella copertura del fabbisogno finanziario per gli investimenti,
alimentando la convinzione che lo sviluppo delle imprese dovesse essere
sostenuto solo da mezzi di terzi, mentre i profitti potessero essere
liberamente disposti dagli azionisti, spesso con trasferimenti
transfrontalieri. Come sappiamo le crisi del debito, non solo pubblico, hanno
bruscamente riportato il sistema economico e finanziario con i piedi per terra,
condannando dapprima le imprese marginali, poi quelle più grandi ed ora anche
le banche. Il risultato è che oggi, pur in presenza di ampie disponibilità
finanziarie, il credito all’economia reale è molto limitato e il finanziamento
alle start-up che potrebbero fornire una iniezione di risorse imprenditoriali e
manageriali per lo sviluppo è addirittura bloccato.
Di fatto gli ultimi decenni non
hanno visto la crescita di nuovi investimenti privati di tipo greenfield, molto impegnativi e ad alto
rischio, ma neanche di tipo brownfield anche
se teoricamente più affidabili, generando un processo diffuso di
disinvestimento cui si sono aggiunte le dismissioni delle aziende di Stato. Con
l’alibi che “non c’è alcun bisogno che lo Stato produca panettoni” si è
proceduto a demolire l’intera struttura portante della nostra economia,
dapprima l’industria pesante e poi tutto il resto, andando a regalare a
importanti gruppi italiani e stranieri, ma anche a speculatori e faccendieri,
importanti marchi con le loro strutture industriali.
A mero titolo esemplificativo si
possono citare, sperando di non far torto a nessuno, Alfa Romeo, Italsider,
Cirio, Motta e Alemagna, Nuovo Pignone, Compagnia Italiana Turismo e molte
altre. Come sappiamo molte di queste imprese non hanno fatto una fine decorosa,
ma alcune si sono rilanciate. Valga per tutte l’esempio della Nuovo Pignone
acquisita dalla General Electric. In occasione di un recente incontro con uno dei massimi dirigenti dell’epoca della multinazionale
americana, ho a fatica digerito la convinzione sua e dei suoi azionisti che
quell’operazione è stata la migliore e più redditizia acquisizione mai
effettuata dal gruppo. Naturalmente la gran parte degli effetti reddituali e di
PIL non sono rimasti nel nostro Paese, come è normale che sia nelle politiche
di tutte le multinazionali.
Purtroppo, sulla strada delle
privatizzazioni si è fatto ancora di più, perché si è passati anche alla
cessione dei servizi in concessione. Valga per tutti l’esempio delle
telecomunicazioni, delle autostrade, degli aeroporti e dell’Alitalia. Si
sperava che la migliore efficienza gestionale dei privati potesse dare nuovo
impulso alle imprese, ma non è andata sempre così: l’Alitalia ha continuato a
bruciare risorse pubbliche con l’aggravante di aver distratto reddito a favore
di almeno due diverse e successive cordate di azionisti, più interessati a
parassitarla che a rilanciarla. Anche queste politiche non hanno contribuito a
sostenere gli investimenti e ancor meno il PIL.
E’ evidente quindi che rispetto
alla situazione degli anni ’80 in cui tutti gli investimenti del secondo
dopoguerra stavano dando il loro contributo alla crescita del PIL, alimentando
al contempo i redditi di tutte le componenti produttive, e addirittura gli
Investimenti Diretti Esteri si affollavano a corteggiare le nostre imprese per
banchettare alle generose tavole del nostro mercato, oggi che i processi di
disinvestimento hanno manifestato i loro devastanti effetti e che i marchi più
appetibili sono già stati ceduti, come nel caso della moda, ci tocca ripartire
da sotto terra. Per usare una metafora: i buoi sono scappati ed è inutile
richiudere i cancelli, perché invece ci servono aperti per sperare di far
rientrare almeno in parte ciò che abbiamo perso.
Nonostante tutti gli errori
strategici e la globalizzazione, la nostra economia ha continuato a crescere in
modo costante anche se limitato fino almeno alla crisi del 2008 e ciò dimostra
che la sua struttura è comunque solida, perché esiste uno zoccolo duro che
nessuno è riuscito ad intaccare. Non è un caso che il nostro Paese sia ancora
il secondo produttore ed esportatore industriale europeo, che nella moda
nell’alimentare nel farmaceutico nella meccanica strumentale e nell’energia
verde siamo al vertice tra tutti i paesi industriali e che l’italian style resti sempre il più ambito
degli obiettivi di vita per tutte le latitudini, all over the world per dirla con linguaggio globale.
È quindi da questi settori che
bisogna ripartire con processi di integrazione verticale e/o orizzontale che
creino sinergie commerciali e produttive, di diversificazione verso nuovi
prodotti e nuovi mercati, di connessione con distretti/reti internazionali ed
eventualmente di fusione tra più aziende con l’obiettivo di aumentare il peso
specifico sui mercati. Restano importanti margini di crescita in alcuni settori
in cui godiamo di importanti vantaggi competitivi e di barriere all’ingresso
non facilmente aggirabili. Si tratta dei Beni Culturali e del Turismo, incluso
il trasporto aereo, della Protezione Ambientale e del Riciclo dei Rifiuti
Industriali e Urbani, delle Infrastrutture quali reti fisiche (stradale,
ferroviaria, portuale e aeroportuale, elettrica, idrica, fognaria, metanifera)
ma anche reti virtuali che, pur cedute al settore privato (telefoniche e di
comunicazione), necessitano comunque di un coordinamento di rete (banda larga e
frequenze ad esempio), della Sanità e dei Servizi alle Persone.
Fin qui credo che nessuno possa
contestare una politica economica che vada in queste direzioni. Tuttavia, il
dibattito diventa sterile quando si indirizza sugli strumenti di intervento. Infatti,
tutti si concentrano sui fabbisogni finanziari e sulle risorse necessarie a
garantire gli investimenti, quando in realtà bisogna prima capire quali sono
gli interventi di natura reale che bisogna attivare. Così è come se
rilasciassimo un assegno in bianco ai destinatari degli interventi, senza
neanche indirizzarli su priorità e modalità. In realtà quello che manca è un
coordinamento di politica industriale che, senza voler condizionare gli animal spirits di schumpeteriana memoria,
garantisca almeno il rispetto del Sistema Paese e dei diritti costituzionali di
tutti i suoi cittadini.
L’attenzione va quindi spostata
sulle priorità e sulle modalità delle politiche di sviluppo destinate al
sistema produttivo.
In termini di priorità vanno
privilegiati tutti gli interventi che mirino al recupero di strutture
preesistenti, allo sviluppo della concorrenza, all’allargamento della fruizione
di prodotti e servizi da parte dei cittadini e in definitiva al miglioramento
della qualità della vita. Ma come fare?
Il percorso chiave è fatto di RICERCA – INNOVAZIONE - GESTIONE. Infatti,
la crescita di qualsiasi impresa, sia essa già esistente oppure frutto di un
nuovo progetto, è un processo complesso che, partendo dalla intuizione del
cambiamento, attiva ricerca ed innovazione, implementando i risultati nella
gestione ordinaria.
Ad
eccezione della fase di intuizione che essendo la scintilla di
avviamento del processo di cambiamento è sempre di natura interna
all’organizzazione, a partire da una qualsiasi delle successive fasi di
ricerca, innovazione e gestione, c’è bisogno di un supporto che consenta di
proseguire il percorso verso lo sviluppo.
Si tratta di studiare interventi mirati su:
· Ricerca, intesa come applicata e pre-competitiva a partire da
risultati di ricerca di base, spesso completata in ambiente universitario, ma
che necessitano di essere messi a fattor comune da parte di istituzioni
pubbliche e private interessate a predisporre un vero e proprio progetto industriale:
analisi e valutazione dell’idea progettuale in chiave prospettica, ricerca di
partner scientifici, istituzionali e industriali, elaborazione del progetto e
del piano finanziario di copertura degli investimenti, gestione delle regulations previste.
· Innovazione, intesa come applicazione delle intuizioni e della ricerca
finalizzate al conseguimento di benefici per il sistema complesso di
appartenenza. Servono intelligenze di diversa natura quali curiosità memoria
motivazione dedizione velocità e flessibilità, ma anche strumenti per la
creatività, intesi come tecniche interdisciplinari di scienze matematiche
fisiche chimiche biologiche economiche e socio-culturali da capitalizzare
all’interno di tecnologie codificate e protette da marchi e brevetti..
Gli
obiettivi conseguibili dall’innovazione, sia in ambito nuovi prodotti che
soprattutto revisione e ottimizzazione di processi, sono tutti riconducibili a
due ambiti fondamentali, la strategia e l’operatività con cui le imprese, sia
in fase di avviamento che di consolidamento, si confrontano costantemente nella
sperimentazione di nuove direzioni e modalità di business.
Per
esempio, in ambito strategico si possono indicare attività di: riutilizzo dei
residui industriali, rigenerazione di impianti, integrazione verticale a valle
o a monte, rinnovamento di canali di vendita e distribuzione, diversificazioni,
scorpori, fusioni e acquisizioni.
In
ambito operativo prevalenti sono le attività di: accorciamento della
“supply-chain”, valorizzazione dell’ultimo miglio con “just-in-time” e
“content-delivery”, integrazione dei dati di comunicazione e trasporto,
ottimizzazione dei processi complessivi.
Ma le
tipologie di innovazione sono le più diverse in quanto derivate dalla
creatività delle imprese e in ultima analisi di dipendenti e collaboratori. Infatti,
l’intero processo si confronta costantemente con una attitudine aziendale verso
la “business intelligence”, intesa sia in termine di raccolta informazioni che
di elaborazione delle stesse per ottenere risultati in grado di equilibrare
fattori interni ed esterni all’organizzazione. Ed è proprio in questo ambito
che si esprimono le attività di gestione che costituiscono l’ultima fase
dei processi di innovazione. Si tratta di attività ispirate all’organizzazione
delle risorse umane e strumentali in tutti i settori suscettibili di recepire e
consolidare i risultati dell’innovazione.
L’intero
processo innovativo rivelandosi così articolato e complesso non viene quasi mai
praticato spontaneamente dalle imprese e necessita quindi di adeguato supporto
da parte di strutture pubbliche in grado di fornire tutti gli strumenti
necessari alla sua finalizzazione. Purtroppo, la attuale struttura di supporto
pubblico concentra la sua attenzione a monte e a valle dell’innovazione. Infatti,
Università ed Enti di Ricerca mettono a disposizioni importanti e qualificate
risorse umane e strumentali per la ricerca di base, ma non per quella applicata
e pre-competitiva. Viene completamente saltato il processo di innovazione che
resta nelle mani delle imprese, con tutte le difficoltà di distrarre tempo e
risorse dalla gestione ordinaria per assegnarle a progetti speciali. Infine, la
mano pubblica recupera il suo ruolo di protagonista quasi esclusivamente sul
piano finanziario i cui interventi però, per i crescenti problemi di finanza
pubblica, si sono via via ridotti trasformandosi da contributi a fondo perduto
in contributi in conto interessi e in conto imposte.
Peraltro,
bisogna anche riconoscere che neanche quando i contributi a fondo perduto erano
la prevalente forma di sostegno all’innovazione, il sistema imprese ha
dimostrato sufficienti capacità di spesa, dal momento che non siamo mai stati
in grado di sfruttare in pieno tutte le risorse messe a disposizione dalla
programmazione UE, continuando ad essere finanziatori netti di quasi tutti gli
altri 27 paesi, che invece dimostrano di saper ben sfruttare le opportunità
comunitarie.
La
spiegazione di queste insufficienti performance è solo una: carenze di
progettualità insieme alle inefficienze degli uffici pubblici deputati alla
gestione dei fondi per la ricerca e l’innovazione, siano essi di natura
regionale o nazionale, ma anche alla incapacità delle imprese di accedere ai
fondi comunitari destinati alla ricerca e sviluppo.
Il
Governo ha recentemente avanzato idee sulla promozione degli investimenti con
la creazione di un Fondo per l’Innovazione da 1 MLD€, il rilancio della legge
Sabatini per gli investimenti in macchinari, la conferma del superammortamento
al 130% e l’allargamento del Fondo di Cogaranzia anche a programmi di
investimento di medio-grandi dimensioni. Tutto aiuta, ma si tratta ancora una
volta di interventi orientati solo e soltanto agli strumenti fiscali e
finanziari sperando che da soli possano stimolare la voglia di investimento
delle imprese. Purtroppo, non sarà sufficiente.
Inoltre,
è bastato l’annuncio di queste potenziali provvidenze per preparare un vero e
proprio “assalto alla diligenza” da parte non tanto delle imprese stesse, ma
soprattutto di tutte quelle istituzioni pubbliche e private che intermediano a
diverso titolo i fondi finanziari. Si tratta dei fondi di venture capital o
presunti tali, dei fondi di private equity che, avendo esaurito le migliori
opportunità di investimento su aziende con EBITDA positivi, puntano ad
abbattere il livello di rischio sulle start-up col sostegno pubblico, ma anche
dei fondi di fondi che, con la scusa di diversificare il rischio, si candidano
al ruolo di mediatori sovrani dell’intero sistema di finanziamento pubblico dell’innovazione,
confinando le istituzioni pubbliche destinate alla promozione degli
investimenti ad un ruolo di comprimari, al massimo destinati a cofinanziare
scelte determinate solo e soltanto dai “signori del credito”.
Se
così sarà, otterremmo il risultato non entusiasmante di rafforzare l’attuale
sistema di mediazione degli investimenti, gratificandolo con tutte le
commissioni di intermediazione cui sistemi simili quali quelli dei fondi comuni
o dei fondi immobiliari o anche dei fondi previdenziali ci hanno abituati (fee
di ingresso, di gestione, di performance e quant’altro frutto della fantasia
dei gestori), ma anche col ristoro dei loro costi di struttura e di management,
senza però ottenere garanzie che i fondi arrivino pienamente ai veri destinatari,
cioè agli start-upper e alle imprese più innovative.
Giova
ricordare che i fondi italiani di venture capital nelle graduatorie europee e
globali, redatte da appositi istituti di ricerca sovranazionali (dealroom.co ad
esempio), non vengono neanche citati, se non per singoli specifici casi di
eccellenza, mentre la fanno da padroni sia per dimensioni che per qualità i
fondi americani, inglesi, tedeschi e francesi. Non è un caso che, a parte
americani e inglesi che basano gli investimenti su un tessuto di intermediazione
finanziaria e consulenziale assai consolidato e che non hanno bisogno di
supporto pubblico, siano proprio Germania e Francia a detenere la leadership
sul mercato europeo continentale: hanno adottato politiche di intervento
diretto nella promozione degli investimenti, limitando ad operazioni molto
particolari la mediazione di operatori specializzati di settore.
La
conseguenza diretta di assenza di politiche industriali sull’innovazione nel
nostro Paese è che, per come evidenziato dai rapporti del WIPO – World
Intellectual Property Organization di Ginevra, nei brevetti internazionali PCT
l’Italia è scarsamente rappresentata, visto che nel 2016 risultano presenti
solo 3.363 application,
prevalentemente di piccole e medie imprese e università, a fronte di dati per
singola azienda internazionale, cinese americana giapponese coreana tedesca
francese, di oltre 1.200 con punte individuali che arrivano anche a 4.000, su
un totale di oltre 233.000 application.
Ancora peggio va per quanto riguarda l’uso dei brevetti da parte di aziende
italiane fermo a 1354 (di cui 57 della Nuovo Pignone di proprietà della GE, con
ENI, TELECOM, PIAGGIO e SAIPEM tutte sotto 30), mentre i contractor, i soggetti
deputati allo sfruttamento industriale dell’innovazione, sono tutti stranieri,
con in testa Cina e USA.
D’altronde
non potevamo aspettarci risultati diversi dal momento che tutti i governi
precedenti non hanno considerato una priorità la promozione dell’innovazione e
addirittura sono arrivati a sganciarsi dal progetto di brevetto europeo che ha
sensibilmente tagliato i costi di registrazione in ambito UE dei risultati
dell’ingegno con la scusa di non poter accettare che tutta la documentazione
fosse tradotta in solo tre lingue, inglese francese e tedesco, escludendo l’italiano
e lo spagnolo. Non è un caso che proprio l’Italia e la Spagna, pur avendo poi
rettificato la loro posizione, si ritrovino oggi nelle posizioni di coda
dell’innovazione in Europa.
Bisogna
quindi cercare di invertire il processo di innovazione trasferendo in capo ad
una o più strutture pubbliche le fasi di ricerca applicata e pre-competitiva e
di elaborazione dei progetti di innovazione e industrializzazione, lasciando
tuttavia alle imprese il compito di tirare fuori dai cassetti tutte le business
idea che per motivi finanziari, ma spesso solo organizzativi, non sono state in
grado di sviluppare. Queste strutture esistono già, anche se sono distribuite
presso diversi dicasteri: Invitalia e ICE - Istituto Commercio Estero presso il
MISE, CNR - Consiglio Nazionale delle Ricerche presso il MIUR, SNA - Scuola
Nazionale di Amministrazione presso la Presidenza del Consiglio, ma anche ENEA,
SACE/SIMEST, CDP e chissà quante altre nascoste nelle pieghe del bilancio
statale.
Non
serve aumentare la spesa pubblica, ma un progetto di coordinamento complessivo
che, direttamente sotto la responsabilità della Presidenza del Consiglio,
finalizzi tutte queste intelligenze verso l’innovazione, veicolando le risorse
umane e strutturali già esistenti e più adatte verso questo importante
obiettivo istituzionale: stimolare e governare gli investimenti, ottimizzare i
processi innovativi e promuovere lo sviluppo del sistema economico-produttivo,
andando a catturare i fondi sia pubblici che privati ovunque siano disponibili
in Italia o all’estero. Se i progetti sono validi e ben presentati non possono
non attirare investitori.
A quel
punto il tasso di crescita del PIL non sarà più una variabile indipendente che
sembra calare la sua triste scure sulle sorti del nostro Paese, ma potrà essere
visto come uno strumento vero di politica economica, consentendo di monitorare
alla fonte gli effetti degli interventi e di aggiustare eventualmente il tiro
delle politiche di innovazione, ampliando l’effetto moltiplicativo e allungando
la durata delle ricadute reddituali e occupazionali.
Leonardo Loprete