Pubblichiamo una lettera che l'estensore ha indirizzato ad un noto personaggio del mondo della cultura e della stampa perché facesse da tramite con gruppi di intellettuali "liberal".
Per il suo contenuto attuale e profondo, riteniamo che il documento meriti una diffusione maggiore.
Per il suo contenuto attuale e profondo, riteniamo che il documento meriti una diffusione maggiore.
Caro (omissis), la mia
speranza è che tu riesca a leggermi fino in fondo, anche se la lettera,
inadatta per qualsiasi giornale, è molto più lunga di quelle che sei abituato a
pubblicare su “(omissis)”, e che io leggo regolarmente. Sei sempre stato per me
un buon maestro. Non vorrei che la “crisi culturale ed esistenziale” che hai
confessato più volte sul giornale ti trasformasse, tuo malgrado, in un maestro
incattivito dai tempi bui che ci toccano in sorte. Scrivo a te per tutti coloro
che possono intendermi, e non ho idea di quanti siano.
Tempi bui per tutti, anche se
ognuno di noi ne ha una propria personale percezione, che dipende da
collocazione sociale, cultura, esperienza, sensibilità. Tu inviti tutti a fare
riflessioni impegnate su questo nostro tempo, cercando, se possibile, di
mettere in campo le risorse di una cultura millenaria. Ma forse le cose nel
nostro cortile sono molto più terra terra e spingono all'invettiva, più che
alla riflessione approfondita.
Noi siamo governati da loschi
figuri, oscurantisti, totalitari, sostenuti da milioni di “ladri di polli”,
analfabeti, anche se molti sono laureati o diplomati, senza arte né parte,
cinici e furbetti come Bertoldo, eterna carne da cannone per ricorrenti
dispotismi, come ci ricordano, parlando del carattere degli italiani, con i
loro scritti, i nostri letterati più celebri, da Manzoni a Leopardi, come ci
hanno ricordato i nostri genitori, parlando della loro vita nella prima metà
del Novecento. Questi loschi figuri, oltre a fare molti danni, forse
irreparabili, rappresentano noi tutti nel mondo. Ed io me ne vergogno. Scusami
per questa digressione furiosa, causata da una serie infinita di frustrazioni,
che derivano anche dalla constatazione quotidiana della rapida degenerazione
della nostra povera, oggi ingloriosa, Capitale. Una degenerazione delle anime e
dei corpi, del paesaggio e dei servizi, visibilissima, ma continuamente negata
da chi purtroppo avrebbe il dovere di governarla. Cercherò d'ora in avanti di
essere più “pensoso”, come richiede la nostra complessa realtà.
Ho l'impressione che gruppi di
intellettuali di diversa estrazione, ma con sincere e comuni radici liberali,
socialiste, e antifasciste, aperti ai processi di globalizzazione, stiano ormai
deponendo le armi culturali, come se tutti insieme si sentissero
irrimediabilmente sorpassati dagli eventi, inesorabilmente determinati,
addirittura dominati, dai “nuovi barbari”. Di questi gruppi intellettuali fai
parte pienamente anche tu. E modestamente, da una posizione più defilata,
anch'io. Qui incontriamo un primo interrogativo, che ingenera molti equivoci.
Chi sono i nuovi barbari? Il vostro “modello di riferimento” è la caduta
dell'Impero Romano: tu ne scrivi un giorno sì e l'altro no su “(omissis)”. Il
tentativo è apparentemente suggestivo: si equipara l'Occidente di oggi
all'Impero Romano della decadenza ed il gioco è fatto. Ma è veramente utile
alla lettura della realtà questo modello, o è tragicamente fuorviante?
Tu, insieme agli intellettuali
di cui sopra, parlando e scrivendo dei nuovi barbari, affermi che sarebbero i
rappresentanti del sovranismo imperante oggi, soprattutto nel nostro Paese, ed
i loro propagandisti. Ma l'uomo normale, l'uomo della strada, se il modello di
riferimento è la Roma imperiale, quando sente parlare di “nuovi barbari” pensa
immediatamente alle masse di immigrati che assediano l'Occidente. E li
considerano la causa principale della nostra decadenza. Hai mai pensato agli
equivoci che ingenerate, e al contributo che date alla confusione delle menti?
A me sembra che la vostra sia un'impostazione di una superficialità
imperdonabile, una cosa da talk show, che segnala in primo luogo un vostro
problema esistenziale, che onestamente denunci anche tu, parlando di te stesso,
una penosa resa a ciò che non riuscite a comprendere, più che il tentativo di
interpretare seriamente fatti strutturali storicamente determinati.
Lo posso dire con cognizione di causa, perché anch'io, da molti anni, vedo il mio mondo svanire e la cultura (compreso il “metodo” scientifico), della quale mi sono nutrito dall'infanzia non riuscire più ad essere un'attrezzatura immediatamente utilizzabile, non solo per la comprensione della realtà, ma per la ricerca di un mio “luogo”, di una mia funzione, che siano “vita in grado di trasformare”. Anch'io vedo emergere il lato oscuro di me stesso, e non riesco a trasformarlo in “vita consapevole” capace di modificarlo. Ma non ho mai pensato che l'immigrazione sia la causa principale dei mutamenti sociali e culturali, del paesaggio esterno e dei miei paesaggi interiori. Credo che questi intellettuali, che hanno sempre suscitato in me ammirazione (non mi riferisco ai dirigenti politici di professione, che mi sembrano da tempo destinati all'ininfluenza culturale) confondano la realtà con il loro stato d'animo. Ed è perché sono tanti, che diventano anch'essi, al di là del fatto personale, un problema strutturale. Non mi riferisco alle élite in generale, che sono costantemente il bersaglio polemico dei cosiddetti “nuovi barbari”. Mi riferisco a determinati gruppi di intellettuali, di grande cultura umanistica e scientifica, che scrivono sui giornali e vanno in televisione, e influenzano quella che una volta si chiamava la “pubblica opinione”. Al di fuori dei paragoni con l'Impero Romano, che sono assai suggestivi, ma azzardati e fuorvianti, voglio dirti quanto segue.
Lo posso dire con cognizione di causa, perché anch'io, da molti anni, vedo il mio mondo svanire e la cultura (compreso il “metodo” scientifico), della quale mi sono nutrito dall'infanzia non riuscire più ad essere un'attrezzatura immediatamente utilizzabile, non solo per la comprensione della realtà, ma per la ricerca di un mio “luogo”, di una mia funzione, che siano “vita in grado di trasformare”. Anch'io vedo emergere il lato oscuro di me stesso, e non riesco a trasformarlo in “vita consapevole” capace di modificarlo. Ma non ho mai pensato che l'immigrazione sia la causa principale dei mutamenti sociali e culturali, del paesaggio esterno e dei miei paesaggi interiori. Credo che questi intellettuali, che hanno sempre suscitato in me ammirazione (non mi riferisco ai dirigenti politici di professione, che mi sembrano da tempo destinati all'ininfluenza culturale) confondano la realtà con il loro stato d'animo. Ed è perché sono tanti, che diventano anch'essi, al di là del fatto personale, un problema strutturale. Non mi riferisco alle élite in generale, che sono costantemente il bersaglio polemico dei cosiddetti “nuovi barbari”. Mi riferisco a determinati gruppi di intellettuali, di grande cultura umanistica e scientifica, che scrivono sui giornali e vanno in televisione, e influenzano quella che una volta si chiamava la “pubblica opinione”. Al di fuori dei paragoni con l'Impero Romano, che sono assai suggestivi, ma azzardati e fuorvianti, voglio dirti quanto segue.
Per non scomodare sempre
l'Umanesimo, culla della nostra cultura, ciò che è venuta a modificarsi, a
livello di massa, è certamente una prassi che, per farmi meglio comprendere, è
simile alla prassi medica, maturata in occidente dal periodo di Ippocrate, nel
corso di 2.500 anni: prima si fa l'anamnesi, cioè la raccolta dei dati, poi si
abbozza la diagnosi che, prudenzialmente, può essere accompagnata da una
temporanea prognosi, magari da una presa di distanza, per vedere meglio, quindi
si tenta una terapia, cioè una modifica della situazione esistente. Ecco,
questa procedura sembra venuta drammaticamente meno nella vita sociale. È una
procedura che è imparentata direttamente con il metodo scientifico applicato
alla vita quotidiana, e che richiede tanta cultura ed esperienza, ma anche una
visione della realtà meno viziata dalle retoriche dell'immaginario. È una
prassi che insomma permette una penetrazione della realtà, non obbliga ad una
comoda fuoriuscita in mondi altri. Questa procedura ha permesso agli uomini,
nel corso dei secoli, di uscire gradualmente dalla condizione di
cacciatori/raccoglitori, anzi, si è affermata man mano che le condizioni
sociali si modificavano, intervenendo sulla natura per umanizzarla, e
purtroppo, da qualche secolo, anche per distruggerla. Ed il processo grandioso
che è stato innescato si chiama “processo produttivo”. Fin qui, caro (omissis),
tutto bene, siamo nelle nostre contrade dentro le quali le nostre menti possono
camminare comodamente.
Ma la società di massa attuale
in occidente e dintorni, dove tutto è livellato al minimo di umanità,
nonostante lo sbandieramento di una sequela di diritti, è caratterizzata dalla
prevalenza del consumo, non della produzione.
Basta osservare cosa contano
operai e contadini oggi, cosa contano gli artigiani. Io, come sai, vengo da
quel mondo ed ho potuto constatarlo di persona. Nel nostro Paese, se si
escludono alcune zone del Sud funestate dal caporalato, come nel resto
dell'Europa occidentale, non si vivono condizioni simili a quella della
schiavitù, ma in altri Paesi, nei quali è avvenuta o sta ancora avvenendo, la
delocalizzazione delle attività produttive più pesanti e inquinanti, esiste una
condizione di mezzo che non è quella della schiavitù, ma non è nemmeno quella
del lavoro protetto da una legislazione adeguata, venerabile come centro della
vita e veicolo di dignità. Non mi riferisco solo a certi Paesi extraeuropei.
Basti l'esempio della Romania, dove il salario medio è di 250 Euro al mese, le
condizioni incontrollabili, e lo Stato sociale un desiderio solo in fase
embrionale. Anche lì, per la pervasività dei mezzi di comunicazione di massa,
non è la produzione che conta, insieme alla mistica del lavoro, ma la
possibilità del consumo. Il mondo, nelle periferie dell'Occidente, appare come
una mastodontica New York, dove gli abitanti di Harlem, o del Bronx, vivendo di
espedienti, aspettano con invidia il loro turno di entrata nella grande
Manhattan, dove si consuma di più e meglio, e si ha l'impressione di essere al
centro dell'universo. E non riescono a sviluppare modelli di vita veramente
alternativi a quelli del grande capitale. Questa realtà binaria è evidentissima
in Italia, unico Paese in Europa nel quale c'è una faglia che divide il nord,
dove la produzione è ancora una realtà tangibile - e comunque il lavoro non
appare più, nemmeno lì, il centro esistenziale dell'uomo – dal sud, dove, per
mancanza di produzione, è il solo consumo che trionfa sul resto della vita,
riducendo il lavoro a mera appendice poco appetita ed elevando
l'assistenzialismo a modello di vita. Questa faglia passa per Roma, e divide
sempre più il Nord dal Sud facendo dell'Italia un soggetto nazionale
schizofrenico. Ciò è testimoniato anche da questo strano governo, dove esiste
una convergenza degli opposti. Solo per fare un esempio: gli uni impongono il
reddito di cittadinanza guardando prevalentemente al sud, gli altri la flat tax
guardando prevalentemente al nord: due fesserie, che mortificano il lavoro,
dentro un “corpo solo”. E con il lavoro tutto ciò che può essere pulito e onora
la vita. Ma ciò è avvenuto anche per l'inettitudine delle vecchie classi
dirigenti politiche, che hanno trasformato un'originaria differenza storica tra
il nord ed il sud in un abisso incolmabile. Ti chiedo scusa per la lunga
parentesi).
I nuovi barbari non sono solo
i politici sovranisti ed il codazzo dei loro propagandisti, che la Nouvelle
Vague chiama “comunicatori”, ma tutte quelle persone che hanno attraversato una
rivoluzione silenziosa, guidata dall'alto, che è durata decenni. La rivoluzione
antropologica, della quale scriveva con molto acume Pasolini, forse senza
comprenderne fino in fondo le implicazioni, è ancora in corso. E dà vita a un
“uomo nuovo”, sostanzialmente diverso anche dall'uomo massa della prima metà
del Novecento, che è stato testimone attivo dell'esperienza fascista e nazista,
perché già embrionalmente aveva alcune delle caratteristiche dell'uomo massa
attuale (ricordi “Tempi moderni” di Charlie Chaplin?). Se l'uomo della
produzione, compresa quella agricola, aveva bisogno, a livello di massa, di una
“personalità progettuale” che sapesse far tesoro del passato e immaginarsi il
futuro, la società consumistica ha bisogno invece di un uomo dalla personalità
del “tutto e subito”, che si esprima sull'onda di pulsioni immediate. L'uomo
del “tutto e subito” è un uomo teleguidato, si sono scritte intere biblioteche
a questo proposito: le pulsioni vengono indotte dalla pubblicità, dalle news, o
meglio, dalle fake news, ovvero da narrazioni destinate a indurre visioni della
realtà funzionali al consumo, che è rimasta l'ultima ideologia onnicomprensiva,
insieme alla riproduzione di un potere politico sempre più ridotto a funzione
minore: a questo serve la controinformazione dei servizi segreti di ogni Paese,
resa più potente e pervasiva da internet e dai social network. Si può
comprendere meglio allora perché la Scuola conti così poco nella costruzione
del soggetto e del cittadino: era stata preparata per obbiettivi diversi, come
testimoniano qui in Italia anche gli scritti di Edmondo De Amicis, le sue basi
erano umanistiche e scientifiche, e fortunatamente non si è del tutto adeguata
al “nuovo”, nonostante la fastidiosa pressione delle famiglie, ma è comunque un
pasticcio vivente, dove lo studio è, filosoficamente parlando, un mero
“accidente”. Infatti, il centro focale della Scuola non è più il rapporto tra
studente e insegnante, ma quello con il territorio, insieme a tutti gli
adempimenti burocratici che ne conseguono.
Anche la politica si è
adeguata. Oggi i “politici” sono solo degli imprenditori del consenso
finalizzato al potere. Sono in perenne campagna elettorale e agiscono con
l'occhio e l'orecchio incollati ai sondaggi, con le dita in perenne movimento
per scrivere proclami ad uso e consumo dei propri follower. Non sanno governare
i processi, per questo sono pericolosi. Ma sanno conquistarsi il consenso, per
esercitare un potere che possa aumentare ancora di più il loro consenso, in una
spirale sempre più folle. È una fesseria tirare in ballo il narcisismo e
ridurre il tutto ad una disposizione psicologica: questa è una questione
strutturale, di come è organizzata la società e di quali sono i valori che la
sostengono.
Questo uomo del “tutto e
subito” non ha bisogno di una memoria storica e nemmeno di una coscienza di sé
(sarebbero un fardello inutile) mentre il futuro appare sempre e solo come una
proiezione del presente. È soprattutto questo che induce un'angoscia di tipo
nuovo, una imprecisata percezione di pericolo, di liquefazione dell'identità,
non più sorretta da una visione del mondo e di sé stessi, nella quale “la
cultura classica umanistica e scientifica” erano strumento di comprensione della
realtà, prima che di azione. E l'inquietudine derivante da quell'angoscia,
spesso la paura, vengono deviate da un potere criminale e criminogeno
sull'esercito dei migranti, sui rom, su tutti i “diversi”, che possono cambiare
a seconda del momento e delle convenienze.
“L’uomo nuovo” non ha alcuna idea della libertà, anche perché non ha
alcuna idea della responsabilità verso gli altri, sia in senso orizzontale, sia
in senso verticale, cioè generazionale. Libertà per lui significa fare i propri
comodi, cercando protezione in un qualche potere rispetto ai pericoli esterni,
che il potere di turno gli offre a piene mani inventando dei “capri espiatori”,
o dei nemici di comodo, come scrivevo poc'anzi. L'uomo massa attuale, basato
solo sulla mistica del consumo, non ha sensi di colpa apparenti, ed ha solo una
vaga consapevolezza della propria condizione, quindi i colpevoli del mancato
paradiso, dell'angoscia di tipo nuovo, devono sempre essere cercati altrove. Ti
ricordi cosa scrive Michel Foucault a proposito della funzione delle carceri,
in “Sorvegliare e punire”, e della nascita dei manicomi in “Storia della
follia”, mentre descrive la scelta di internare, all'inizio dello sviluppo
industriale, tutti coloro che non erano funzionali alla produzione e rendevano
tra l'altro problematica la trasmissione nel tempo dei patrimoni famigliari?
Ecco, ciò che ha scritto lui non aiuta solo a comprendere ciò che è avvenuto
nei secoli scorsi nelle società del nascente capitalismo, dov'era la produzione
a regnare sovrana ma, con opportune variazioni, anche ciò che accade nelle
società consumistiche, dove i ghetti sono molto più sofisticati e abitano
stabilmente le menti degli uomini.
Questo bagaglio culturale,
maturato nei secoli, che tu, insieme ad altri, senti mortalmente mortificato,
serve invece moltissimo, caro (omissis). Basta decidere di uscire dallo
smarrimento che ci procura il nuovo che è nato senza che noi ce ne
accorgessimo, insinuandoci il dubbio della nostra totale inutilità.
Com'era già post-moderno, nel
lontano ottocento russo, il Dostoevskij dei Karamazov, anche se non aveva idea
di cosa fosse la società di massa, e tantomeno il consumo eretto a ideologia:
nessuna democrazia fa comodo all'uomo dominato dall'inquisitore, nessuna
crescita autonoma dei cittadini, nessun insegnamento evangelico che fornisca la
voglia di costruirsi una “salvezza” nell'amore inteso come accettazione del
rischio di morire, uscendo un po' da sé stessi e incontrando l'altro.
All'inquisitore, secondo la leggenda di Ivan Karamazov, raccontata al fratello
Aliosha, interessa solo di forgiare il suddito, il servile dipendente,
amministrando le sue paure e le sue debolezze, come se la vita fosse una
proiezione all'infinito del grembo materno. E l'uomo in fondo è questo che
cerca, perché è fragile ed ha bisogno di essere protetto da sé stesso in primo
luogo, bisogno di consolazione. E tu Gesù perché vieni a disturbarci, dopo
tanti secoli dalla tua prima apparizione, con il tuo percorso di salvezza per
gli uomini tutti, intriso di rischi e di ingannevoli speranze? Tu sei
meritevole solo del rogo, perché obblighi gli uomini a coltivare falsi miti,
dice l'inquisitore.
Ai tempi di Dostoevskij, in
Occidente si cominciava a parlare della morte di Dio. “Dio è morto”, dice
Nietzsche negli stessi anni, e pone questa rivelazione al centro della sua
filosofia. “Dio è morto”, riecheggia Guccini, con la chitarra in mano, mentre
osserva, cinquant'anni fa, i camini di Auschwitz.
Da qualche decennio invece
assistiamo ad un'altra morte, come afferma Recalcati, che si rifà a Lacan:
quella del Padre. Il Padre non esiste più. E senza il Padre la vita non ha più
spessore, la libertà non è più coniugabile con la responsabilità.
Non posso credere che tu, con
la cultura densa e profonda che hai, coltivata sui classici, abbia le stesse
leggerezze degli intellettuali di cui scrivo. Ripeto: i “barbari” non vengono
dall'esterno, come nell'Impero Romano durante la sua lenta e lunga
disgregazione. Quei “barbari” di cui si parla oggi non sono da paragonare agli
immigrati che assediano l'Occidente, e che si spingono ovunque, anche nei
luoghi più sperduti, lontani dall'Occidente, ma sempre meno inospitali dei loro
luoghi di origine, caratterizzati dalle carestie, dalla miseria, dalle
schiavitù, dalle guerre. Se fossero loro i nuovi barbari sarebbero meno
arroganti e più vitali e potremmo coltivare qualche speranza in più.
Quei “barbari”, nascono tutti
all'interno del sistema occidentale, sono gli “uomini nuovi”, figli del
consumo, e sono il frutto di una sua autotrasformazione ad opera delle
strutture capitalistiche, soprattutto finanziarie (un coacervo di forze
fraudolente, capitali sporchi in via di riciclo, o di ripulitura, derivati che
inquinano più del cromo esavalente, oltre a normali capitali che riempiono la
pancia dei fondi sovrani e delle banche di tutto il mondo, che poi lesinano, a
condizioni d'usura, prestiti alla produzione e mutui ai singoli cittadini).
Sono il frutto dei nuovi media interattivi, potentissimi veicoli di nuovo
analfabetismo in realtà, che inducono disturbi alla personalità e dipendenza
quanto e più delle droghe. E di governanti non avveduti, che hanno aperto la
strada a nuove forme di fascismo, caratterizzate da un mix di xenofobia,
razzismo e sovranismo, delle quali si ha persino paura a parlare, perché alla
fine di quel discorso c'è solo la guerra, insieme all'affermazione di nuove e
più “performanti” schiavitù.
Il vero inizio di quei
processi che portano il nome di “sovranismo” in Occidente, che irrompono come
elefanti in una cristalleria nelle case dell'uomo “tutto e subito” del
consumismo, risale alla devastante crisi del 2008, che fu crisi finanziaria da
eccesso di derivati. Ma quegli stessi processi subirono poi un'accelerazione
con l'avvento dello sciagurato Trump al potere in America, e del “trumpismo”,
come cultura portante dell'isolazionismo, in un mondo che ormai era ed è
interconnesso in tutto, o quasi. Da quel momento si è intensificata una folle
costruzione di muri: sono partite le guerre commerciali con la Cina e l'UE, è
avvenuta l'uscita dal trattato di Parigi sul clima, l'uscita dal trattato con
l'Iran per il controllo del nucleare e, proprio in questi giorni, dal trattato
di non proliferazione delle armi atomiche, firmato a suo tempo da Gorbaciov e
Reagan, che esporrà l'Europa ad una formidabile pressione politica e militare
da parte della Russia. Nel frattempo la Gran Bretagna si è infilata nel vicolo
cieco sovranista della Brexit, e l'Italia nell'avventura populista Salvini/Di
Maio/ Conte, che ci sta portando in un oceano di guai, guai veri, dai quali non
sembra possibile salvarsi facilmente, perché sostenuta da un popolo livido di
rancore e smemorato e, nello stesso tempo, impaurito, ignorante di sé e degli
altri, bullo e fragilissimo, per questo tremendamente manipolabile, proprio
come l'uomo dell'inquisitore, narrato da Ivan Karamazov … E si parla con grande
sorpresa di una nuova recessione mondiale in arrivo (l'Italia si è già portata
avanti con un blocco della crescita nel terzo trimestre di quest'anno): per
forza, con tutti questi muri, con tutta questa confusione circa le decisioni da
prendere, con tutti gli impedimenti messi in campo, qui in Italia, alla
costruzione di grandi opere pubbliche che peraltro aumenterebbero i
collegamenti internazionali e innescherebbero un notevole risparmio energetico,
oltre ad una diminuzione delle fonti inquinanti (TAP, TAV, terzo valico ferroviario),
mi stupirei se non fosse così. L'approdo di tutto questo non sarà un “nuovo
mondo”, come andate ripetendo con amarezza voi intellettuali, da sempre mio
punto di riferimento, e nemmeno la “decrescita felice”, come balbetta a vanvera
Luigi Di Maio, senza aver letto una riga di Latouche. L'amarezza, secondo voi,
è causata dal fatto che non riuscite a comprenderlo, e vi sentite
irrimediabilmente superati ed esclusi. Scusami (omissis), ma mi sembra un
delirio il vostro, se arrivate persino a dire, nel pieno di questa fregola auto
persecutoria, che siete voi in fallo, perché siete convinti che la fine del
vostro mondo sia anche la fine del mondo intero, cioè un dato puramente
soggettivo, invece ... Fino a questo punto vi lasciate condizionare dalle vostre
illusioni perdute e dalla ridicola propaganda avversaria sui “radical chic”.
L'approdo di tutto questo non
sarà un mondo nuovo, più o meno bucolico, ma la guerra, accidenti, la guerra al
cospetto di armi nucleari, che ormai hanno invaso il mondo, la guerra di ognuno
contro tutti, e poi chi vivrà vedrà, se avrà ancora la possibilità di vedere!
Ti ricordi della Jugoslavia
dopo la morte di Tito, che per noi, grosso modo, è equiparabile alla funzione
equilibratrice dell'Europa, al di là dei limiti, delle ipocrisie e delle colpe
dei suoi governanti? Ti ricordi di come emersero rapidamente i nazionalismi, le
devastanti pulizie etniche, gli scontri religiosi, gli odii tribali, le
diatribe famigliari che sfociavano in sparatorie persino dai ballatoi dei
condomini? Ti ricordi della Jugoslavia di venticinque anni fa, di Sarajevo
assediata per cinque anni, del ponte di Mostar abbattuto per isolare persone e
culture, delle stragi di Srebrenica, qui a due passi da noi? Non ti pare solo
un pallidissimo esempio, di ciò che potrà accadere a tutti noi se non
contrasteremo lucidamente questa deriva, anche se ci sembra di essere come quel
bambino della favola di Andersen, che metteva il dito in un foro della diga per
fermare l'azione devastatrice delle acque del mare?
Tra noi e il mondo nuovo, di
cui scrivi con comprensibile, ma un po' narcisistica amarezza, caro (omissis),
c'è la guerra, la distruzione di quanto ci è più caro.
E per quanto riguarda il
nostro bagaglio culturale smettiamola di parlare di radici cristiane come se
fossero qualcosa di puro e intoccabile. Se siamo contro i costruttori di nuovi
muri, dobbiamo essere, a maggior ragione, contro i difensori dei vecchi muri.
Cosa sarebbe stato l'Occidente cristiano senza la mediazione dei filosofi greci
e dei loro epigoni, tradotti in occidente molti secoli dopo, quando l'Occidente
europeo era ancora una rozza appendice del grande continente asiatico, da
grandi intellettuali della cultura araba ebrea e musulmana, come Averroè e
Maimonide, per citarne solo alcuni, e poi copiati a mano per secoli nei silenzi
dei monasteri? Anche le culture amano il meticciato, anche le culture non
vogliono stare da sole. E ci sarebbe stato il secolo dell'Illuminismo, che
tanto ha influito sull'Occidente, senza quel precursore di grande cultura
ebraica che fu Spinoza, messo al bando da tutti nell'Europa del milleseicento,
anche dagli ebrei di Amsterdam dov'era finito dopo l'espulsione della sua
famiglia dal Portogallo, e costretto a molare lenti per sopravvivere? E cosa
sarebbe in futuro la cultura occidentale, oggi dominata dal cinico titanismo di
technè, più che dal cristianesimo, senza un confronto ravvicinato con le
culture orientali, quella cinese in particolare? Parliamone con Francois
Jullien, che ha speso una vita su questi temi. Le culture non sono scarpe
vecchie da abbandonare dopo averle consumate. E possono trovare linfa nuova nel
confronto, e tramandarsi all'infinito miscelandosi fra di loro, fecondando la
vita, perché la vita continui ad esistere.
È ora di uscire dagli studi
degli psicanalisti, di raddrizzare le schiene. Sono certo che su questo punto
tu ed io possiamo essere d'accordo. Permettimi di dire a te che ne sei
consapevole, per parlare anche agli altri, che non è superata la nostra
cultura, frutto nei secoli di innumerevoli apporti, ma solo il nostro carattere
di “carte assorbenti”, di imbelli osservatori delle catastrofi. È ora di uscire
dai gusci senza farsi ghermire dallo sconforto, respirare aria fresca,
rischiare, lottare, sbagliare, cadere, rialzarci, insomma vivere.
L. Scalvenzi