Il dibattito sulla adeguatezza dell’età
pensionabile nel nostro paese continua più vivo che mai tutte le volte che le
istituzioni deputate alle analisi statistico-economiche colgono l’occasione di
ricordare alla opinione pubblica che la Riforma Fornero non va toccata. In
realtà la riforma è stata già più volte corretta con le tutele agli esodati,
con l’apertura al pensionamento differenziato per le donne, con la
ricongiunzione gratuita dei contributi anche verso il parasubordinato e infine
con l’Anticipo Pensionistico (APE social e a pagamento) con costi che ormai
hanno superato i 10 miliardi di euro. Il sospetto è che l’ulteriore
allungamento strutturale dell’età pensionabile serva proprio a finanziare tutte
queste tipologie particolari secondo la logica tutta italiana di proteggere
alcune categorie di cittadini a danno di tutti gli altri.
Urge dunque fare chiarezza per provare a
valutare il sistema pensionistico nelle sue caratteristiche strutturali a
partire dai presupposti base, tra cui l’aspettativa di vita è il principale, e
soprattutto dai dati che fotografano la situazione demografica del nostro
paese.
I dati sugli indicatori demografici pubblicati
dall’ISTAT forniscono come al solito una fotografia della popolazione italiana
che, essendo un semplice fotogramma di un film ancora tutto da completare, deve
metterci in guardia da tentazioni estrapolative che verrebbero prontamente
smentite anche dal semplice aggiornamento delle serie storiche degli anni
successivi.
Ne è un esempio palese il dato sulla
aspettativa di vita degli italiani che per il 2015 parlava per la prima volta
da molti anni a questa parte di una riduzione da 80,3 a 80,1 anni per gli
uomini e da 85 a
84,7 anni per le donne, mentre per il 2016 indica una risalita a 80,6 anni per
gli uomini e a 85,1 anni per le donne. E’ evidente che nel breve arco di dodici
mesi nulla è cambiato sostanzialmente per cui piuttosto che di aggiornamento
dell’informazione si dovrebbe parlare in senso statistico di puro “rumore”.
Pertanto i tentativi di interpretare il dato
per il 2015 che parlavano di fattori congiunturali, tra i quali il principale
sembrava essere la riduzione delle spese sanitarie pubbliche e private in
prevenzione, ivi comprese le vaccinazioni, non possono che apparire oggi alla
luce dei dati 2016 pura mistificazione. Non mi stupirei peraltro di rilevare
che anche per il 2017, una volta che saranno resi disponibili i dati di
consuntivo, a causa dei picchi di temperature e di siccità della stagione
estiva, l’indice di mortalità possa registrare un ulteriore stallo se non
addirittura una regressione.
Viceversa assai più utile è provare ad
analizzare l’indicatore stesso in termini strutturali andando a valutare
l’effettiva robustezza/fragilità dello stesso in una chiave di lettura
proiettata verso il futuro.
Possiamo partire dal più semplice indicatore di
mortalità, il numero dei morti per 1000 abitanti che, dopo essersi
sensibilmente abbassato dai quasi 35/1000 della seconda metà dell’800 fino ai
circa 10/1000 degli anni a cavallo del 1950, si è sostanzialmente stabilizzato.
Ciò in presenza di un tasso di crescita naturale della popolazione
costantemente in flessione da almeno 25 anni con un tasso di natalità ormai
sceso intorno alle 9/1000 unità e un tasso di mortalità che sembra essersi
stabilizzato su valori compresi tra le 9 e le 10 unità sempre per mille
abitanti. È difficile quindi aspettarsi ulteriori miglioramenti dell’indice di
mortalità in assenza di significativi cambi di segno negli indici di natalità.
Una seconda considerazione può essere fatta
prendendo in esame il dato relativo a tutti coloro che hanno superato l’età di
90 anni, in pratica cinque anni di più rispetto all’aspettativa di vita
correntemente stimata per le donne, partendo dal 2009 per arrivare al 2016 (si
tratta delle popolazioni/coorti dei nati tra il 1919 e il 1926) e mettendolo in relazione con i nati vivi
delle stesse coorti. Il risultato è un indicatore costantemente in crescita dal
10,4% al 14,7%. Lo stesso indicatore calcolato per i soggetti che hanno
superato l’età di 95 anni sulle coorti 1914-1921 pur in crescita passa dal 3,2%
al 3,7. Anche per i soggetti che hanno superato l’età di 100 anni l’indicatore,
calcolato ovviamente solo per le coorti 1909-1916, parla di crescita, ma sempre
più contenuta, passando dall’1,55% all’1,65%.
In pratica i tassi di crescita dell’indicatore
di sopravvivenza a 90, 95 e 100 anni, pur considerando l’effetto negativo sulla
mortalità degli eventi bellici del secolo scorso, decrescono sensibilmente col
crescere dell’età, lasciando intendere che ulteriori significativi incrementi
del limite estremo della vita, a meno di clamorose scoperte medico-scientifiche
prontamente diffuse sull’intera popolazione, non possano essere
semplicisticamente previsti.
Ma in effetti ciò che potrebbe influenzare in
modo più significativo l’indice di aspettativa di vita per l’intera popolazione
è soprattutto l’età del decesso di tutti coloro che non hanno avuto la fortuna
di poter raggiungere neanche l’età corrispondente all’aspettativa di vita media,
anno per anno calcolata. In pratica si tratta di tutti quegli individui che
nella curva di frequenza dell’età di morte (la famosa curva a campana di Gauss)
si trovano nei percentili e decili inferiori. Più significativo sembra essere
il dato di vita probabile corrispondente all’età mediana alla morte, cioè l’età
entro cui è deceduto il 50% della popolazione di riferimento
Solo se la curva a campana è simmetrica
(ipotesi assolutamente irrealistica), la media (aspettativa di vita) coincide
con la mediana (vita probabile). Se però c’è asimmetria verso i centili
inferiori la vita probabile è inferiore alla aspettativa di vita lasciando
molto meno ottimisti tutti coloro che confidano di raggiungere la fatidica età
limite di vita.
Anche considerando il metodo di calcolo della
aspettativa di vita non c’è da entusiasmarsi dal momento che dipende
esclusivamente dai tassi specifici di mortalità registrati nell’intera
popolazione nell’anno di osservazione. Pertanto se in un determinato anno il
tasso di mortalità è più alto, la aspettativa di vita si riduce rispetto
all’anno precedente. È quello che si è verificato in due anni recenti assai
particolari, il 2003 e il 2015, in cui si sono registrati dei picchi di
mortalità (653000 nel 2015 con un tasso di mortalità pari al 10,7 per mille, il
più alto dal secondo dopoguerra in poi).
Ne consegue che l’indicatore aspettativa di
vita non è strutturalmente stabile (in biologia si definirebbe fragile) perché
fortemente correlato col tasso di mortalità, a sua volta dipendente da eventi
casuali difficilmente prevedibili (vedremo successivamente come le diverse
cause di morte siano cambiate a partire dal secondo dopoguerra).
Inoltre dal momento che l’aspettativa di vita
viene calcolata sull’intera popolazione e non per singole coorti, l’indicatore risulta
distorto dall’effetto positivo o negativo di tutte le coorti di non
appartenenza di ogni singolo individuo.
In pratica se ogni singolo individuo che avesse
superato i 60 anni volesse effettivamente conoscere la sua vita probabile,
dovrebbe far riferimento innanzitutto alla sua coorte (anno di nascita) e poi
alla mediana e cioè all’età cumulata di morte di almeno il 50% del suo universo
di riferimento (la popolazione col suo medesimo anno di nascita). Il sospetto
forte è che il risultato sarebbe per la maggior parte delle coorti inferiore
alla aspettativa di vita – età media alla morte per l’intera popolazione
nell’anno di rilevazione. Anche nel caso di dati aggregati il risultato sarebbe
lo stesso: a causa della differenza tra media e mediana per l’indicatore
relativo all’intera popolazione, ma anche a causa delle diverse caratteristiche
delle popolazioni. Solo disaggregando i dati per singole coorti e calcolando la
mediana per confrontarla con la media si
potrebbe eventualmente individuare una tendenza consolidata alla crescita
generalizzata dell’età dei decessi e quindi anche della aspettativa di vita.
Tuttavia anche lavorando solo con i dati
aggregati una indicazione si può ottenere. Calcolando per le diverse età di decesso
della popolazione la media e la mediana per gli anni successivi al 1966, anno
in cui si è definitivamente stabilizzato il tasso di mortalità magari verremmo
a scoprire che dopo i 60 anni la mediana è costantemente inferiore alla media.
Poiché è proprio questa la fascia di popolazione soggetta a soccombere nei
prossimi anni è significativo sapere che ha una vita probabile inferiore alla
aspettativa di vita, mentre non ha nessuna importanza sapere che fino a 60
anni, soprattutto per effetto della drastica riduzione della mortalità
infantile, la vita probabile è superiore alla aspettativa di vita.
In proposito degna di nota è l’asserzione di
Luigi Galvani, autore del testo sulla “vita probabile” dell’Enciclopedia
Treccani: “Circa il mutuo andamento della vita media o della vita probabile si
può notare che in genere fin verso i 60 anni la vita probabile supera la vita
media, ma che successivamente ne è superata, per la ragione che oltre una certa
età divengono relativamente sempre più rari quelli che morranno in età lontana
da quella e più numerosi quelli che morranno in età prossima, il che tende
appunto a far crescere la mediana (vita probabile) meno rapidamente della media
aritmetica (vita media – aspettativa di
vita)”.
Una conferma di questa asserzione potrebbe
venire dalla elaborazione di una famiglia di curve relative alla funzione del
numero di decessi per età calcolata per ogni anno dal 1966 al 2016,
confrontando gli andamenti nei 40 anni di media e mediana. A quel punto solo se
la differenza tra media e mediana dovesse stabilizzarsi si potrebbe sostenere
che la media è un valido indicatore-proxi della vita probabile dopo i 60 anni.
Ma se risultasse che la differenza tra media e mediana cresce costantemente,
sarebbe difficile argomentare che la vita probabile possa crescere e la
aspettativa di vita a maggior ragione sarebbe un indicatore fuorviante ai fini
dei calcoli attuariali per fini previdenziali o anche solo assicurativi.
In realtà, poiché oramai il nostro sistema
pensionistico richiede una età minima di circa 67 anni per la pensione di
vecchiaia, tutte queste elaborazioni andrebbero effettuate proprio a partire
dalla vita probabile a 67 anni.
In sostanza ai fini dell’effettivo incremento
delle aspettative di vita rilevano molto di più le cause di morte di coloro che
non sono sopravvissuti all’età prevista come aspettativa di vita, rispetto alle
cause di vita che hanno consentito ad una sparuta minoranza, seppur in
crescita, di raggiungere età sempre più avanzate.
Anche questo può essere considerato uno dei
“paradossi statistici” così magistralmente descritti da Nassim Nicholas Taleb
nel suo primo originale lavoro Fooled by
Ramdomness (Giocati dal caso) del 2001, ben prima di divenire famoso col
suo “cigno nero”. In pratica egli sostiene che: “tutte le volte che c’è
asimmetria nei possibili esiti (di vita o di morte) la media della
sopravvivenza (aspettativa di vita) non ha nulla a che fare con la mediana
della sopravvivenza (l’età a cui muore almeno il 50% della popolazione)”.
Se proprio vogliamo fare inferenza sul futuro
della popolazione sulla base dei dati disponibili, conta molto di più conoscere
bene quelli che non ce l’hanno fatta rispetto ai sopravvissuti che hanno già
superato il limite della aspettativa di vita. D’altronde poiché la aspettativa
di vita non è mai negativa il paradosso continua, perché chi non muore molto
presto e sopravvive ha una vita molto lunga. Esattamente come nel caso del “cigno
nero”: non si possono valutare i successi della professione del trader
analizzando solo le performance di coloro che sono sopravvissuti (un piccolo
campione) e trascurando la massa di coloro che sono falliti (in pratica
l’universo).
Ciò conferma che il calcolo reale della vita
probabile o anche della aspettativa di vita di una determinata coorte nata in
un determinato anno andrebbe effettuato distribuendo le popolazioni in base
alle classi di età di decesso. Ciò peraltro consentirebbe di tenere conto
statisticamente del rapporto di causa-effetto di tutti i fattori che hanno
determinato nel corso degli anni morti premature e via via sempre più tardive.
Viceversa se si tiene conto dell’età anagrafica
solo dei sopravvissuti alle vicende della vita e che magari sono candidati a
diventare centenari, è evidente che anziché effettuare una statistica su un’intera
popolazione la si sta facendo su un campione, peraltro particolarmente distorto.
Sarò più chiaro con un esempio:
Tutti i nati in Italia, ad esempio nel 1916 e
che oggi se sopravvissuti avrebbero raggiunto il secolo di vita, hanno dovuto
fronteggiare nel corso della loro vita le più svariate disavventure quali
malattie potenzialmente mortali, epidemie e pandemie, guerre deportazioni e stermini
ed è assai probabile che in assenza dei sistemi di prevenzione e cura e dei sistemi
democratici oggi consolidati, i soggetti più deboli siano già deceduti da
tempo, mentre i sopravvissuti hanno ottime chances di raggiungere nuovi record
di longevità.
Se
invece ci concentriamo sulle generazioni del secondo dopoguerra che ad oggi, se
sopravvissute, avrebbero al massimo 70 anni, nulla ci può garantire che possano
raggiungere la stessa età dei sopravvissuti delle generazioni precedenti.
D’altronde, al di là di qualsiasi valenza scientifica, se ci domandassimo
quanta gente conosciamo che, nata nel secondo dopoguerra, è già mancata,
scopriremmo che non sono molti di meno degli ultraottantenni che abbiamo
accompagnato al riposo eterno. Per credere basta provare a fare una passeggiata
in un qualsiasi cimitero cittadino e controllare l’età del decesso dei defunti
che ivi riposano verificando che coloro che hanno superato la fatidica età di
81 anni per gli uomini e di 85 anni per le donne sono una sparuta minoranza.
Man mano che passano gli anni e le popolazioni
in senso statistico dei successivi anni spariscono, subentrano invece le
popolazioni successive con altri fattori di rischio prima sconosciuti o quanto
meno poco diffusi quali nuove malattie, legate al benessere o all’inquinamento
ambientale, incidenti stradali e sul lavoro e, Dio non voglia, altre guerre. Sono
questi fattori di rischio le principali determinanti della aspettativa di vita.
Le principali cause di morte in Italia sono
ormai le malattie ischemiche del cuore, le malattie cerebrovascolari, altre
malattie del cuore, i tumori le demenze e l’Alzheimer, tutte in forte crescita
dal secondo dopoguerra. Ma in crescita sono anche le malformazioni congenite e
le leucemie per i bambini e gli incidenti stradali e i suicidi per i ragazzi,
anche queste scarsamente presenti in passato. Inoltre, anche se ancora non
adeguatamente censite, ci sono poi le droghe così come i farmaci e gli errori
medici. E non vanno neanche trascurati i fattori di tipo congiunturale quali il
clima invernale ma soprattutto estivo (nel 2003 e nel 2015 i picchi del tasso
di mortalità hanno coinciso con le due estati più calde dell’ultimo secolo) o
anche la scarsa efficacia del vaccino antiinfluenzale per il 2015.
Sono proprio queste cause che influenzeranno di
più i valori futuri della aspettativa di vita e/o probabilità di vita e al
momento è assai difficile prevedere significativi miglioramenti.
Se il nostro sistema previdenziale basa la
propria sostenibilità sulle aspettative di vita così come oggi calcolate, è
chiaro che nessun tipo di intervento, anche il più penalizzante, può garantire
che i giovani di oggi possono andare in pensione nel 2050 a 75 anni (quanto
prevede l’attuale sistema pensionistico) con un livello retributivo adeguato.
Si tratta di un’ulteriore discriminazione a loro danno, perché assisteremmo al
paradosso che, dopo una vita di contribuzione su livelli inaccettabili per un
tenore di vita decente, la sopravvivenza all’età pensionabile sarà ben più ridotta
di oggi, col risultato di aver pagato ben più di quanto riusciranno a percepire
in pensione.
Ciò è peraltro ancora più vero se verranno
ulteriormente alimentati i tentativi di ridurre i diritti in merito alle
pensioni di reversibilità o di accreditare l’idea che siano proprio i diritti
acquisiti dalle coorti più anziane a ledere i diritti delle coorti più giovani.
Non si tratta di un conflitto intergenerazionale, ma più banalmente di un
taglio dei redditi futuri in piena cinica coerenza con il taglio dei redditi da
lavoro che già viene perpetrato con l’alibi della crisi. Di questi tentativi si
sta già cominciando a dibattere e aspettiamoci che presto qualcuno avanzerà la
proposta di procedere ad una equalizzazione tra generazioni non innalzando la
soglia dei diritti dei più giovani, ma abbassando quella dei più anziani.
La vera conseguenza di queste politiche è che
chi sopravvivrà alla età pensionabile scoprirà che per poter recuperare in
rendita perpetua, la pensione, almeno i versamenti effettuati, dovrà
sopravvivere ben oltre la più rosea delle speranze di vita, consentendo di
fatto al sistema pensionistico prossimo venturo non solo la piena
sostenibilità, ma addirittura il profitto pieno.
Ma cosa importerà! Tanto, come diceva John Maynard
Keynes “nel lungo periodo saremo tutti
morti”.
Leonardo Loprete