"C'era una volta la democrazia". E' un articolo dell'Economist, apparso su 'La rivista Internazionale.
Lo riteniamo interessante da leggere e da discutere. E' un articolo che si rifà al solito pragmatismo anglosassone, ma questo non lo rende meno interessante, anzi ... Potremmo anche aggiungere un sottotitolo, che in qualche modo è compreso nell'articolo ed è il seguente: "Di che cosa parliamo quando parliamo di democrazia?". E' questo il punto sul quale insiste l'articolo. La democrazia non è solo elezioni, ma anche Stato di diritto. Si tratta di intervenire sui due corni del problema, non su uno solo. Sono tre i processi inarrestabili dei quali deve tenere conto chi si appresta a riformare i sistemi democratici, quando, come nella fase attuale, presentano più di una smagliatura: la globalizzazione, la glocalizzazione, la diffusione dell'informazione telematica. E attenzione alla concorrenza. La Cina non è concorrente dell'Occidente solo per la produzione di merci, ma anche e soprattutto nella produzione di sistemi socio politici che funzionano. Buona lettura. Se poi qualcuno di voi avrà qualcosa da dire in proposito sarà il benvenuto.
(Lanfranco Scalvenzi)
C’era una volta la democrazia
The Economist – versione italiana pubblicata su
Internazionale
E’ stata l’idea politica che ha
avuto più successo nel novecento. Ma oggi appare indebolita in tutto il mondo.
Le proposte dell’Economist per far funzionare di nuovo la democrazia.
I manifestanti che hanno
rivoluzionato il quadro politico in Ucraina hanno molte aspirazioni per il loro
paese. Negli striscioni chiedono rapporti più stretti con l'Unione europea, la
fine delle ingerenze russe e l'insediamento di un governo onesto che mettesse
fine alla corruzione incarnata dal presidente Viktor Janukovych. Ma la loro richiesta fondamentale, quella che
per generazioni ha spinto tanti cittadini a prendere posizione contro governi
corrotti, violenti e tirannici, è un'altra: vogliono la democrazia e lo stato
di diritto.
È facile capire perché. I paesi democratici sono in media più ricchi
di quelli non democratici, fanno meno guerre e raggiungono risultati migliori
nella lotta alla corruzione. Ma,
soprattutto, la democrazia permette alla gente di dire quello che pensa e di
decidere del proprio futuro e di quello dei propri figli. Il fatto che in tutto il mondo ci siano tante
persone disposte a rischiare per questo ideale dimostra che il suo fascino
resiste nel tempo.
In queste settimane, però, l'euforia
per i fatti di Kiev si mescola all'ansia. Da una capitale all'altra, infatti, si ripete
uno schema inquietante: la gente si raduna in massa nella piazza principale;
gli uomini del regime abbozzano una reazione ma perdono il controllo di fronte
all'intransigenza popolare e al giudizio dei mezzi d'informazione
internazionali; il mondo applaude il crollo del regime e si offre di
contribuire alla costruzione della democrazia. Alla fine, però, rovesciare un dittatore si
rivela molto più facile che dar vita a un governo democratico affidabile. Il nuovo regime stenta, l'economia affonda e
il paese si ritrova nella stessa condizione di partenza (se non in una
peggiore). È successo durante la
primavera araba e anche nella rivoluzione arancione ucraina di una decina di
anni fa. Nel 2004 Janukovych fu costretto a lasciare il potere in seguito alle
proteste popolari, ma fu rieletto presidente (con l'aiuto di enormi quantità di
denaro russo) nel 2010, dopo che i
politici dell'opposizione che lo avevano sostituito si erano rivelati
altrettanto incapaci.
La democrazia sta attraversando un
momento difficile. Nei paesi in cui i
tiranni sono stati cacciati, l'opposizione non è quasi mai riuscita a creare
regimi democratici credibili. Anche
nelle democrazie più stabili i vizi del sistema sono sempre più evidenti e c'è
una grande disaffezione per la politica. Eppure fino a pochi anni fa sembrava che la
democrazia avrebbe prevalso in tutto il mondo. Nella seconda metà del novecento le democrazie
hanno messo radici nei contesti più difficili: nella Germania traumatizzata dal
nazismo, in India, nonostante il numero di poveri più alto al mondo, e nel
Sudafrica segnato dall'apartheid. La decolonizzazione
ha dato vita a una serie di nuove democrazie in Africa e in Asia, e i totalitarismi
hanno ceduto il passo alla democrazia in Grecia (1974), in Spagna (1975), in
Argentina (1983), in Brasile (1985) e in Cile (1989). All'inizio degli
anni novanta con il crollo dell'Unione Sovietica sono nate nuove democrazie
nell'Europa centrale. Nel 2000 Freedom House, un istituto di ricerca
statunitense, ha classificato come democratici 120 stati, cioè il 63 per
cento dei paesi dei mondo. Sempre nel 2000 i rappresentanti di oltre cento paesi
si sono dati appuntamento al World
forum on democracy di Varsavia per proclamare "la
volontà del popolo"
come "base dell'autorità del governo". Un rapporto del dipartimento di stato
statunitense affermava: dopo vari "esperimenti falliti" di forme di
governo autoritarie e totalitarie, "sembra che oggi, finalmente, la
democrazia abbia trionfato". Era un moto di orgoglio certamente comprensibile
alla luce dei tanti successi.
Se guardiamo indietro, tuttavia, il
trionfo della democrazia non sembra così inevitabile. Dopo la caduta di Atene, dove questo modello
politico si era sviluppato, la democrazia è rimasta dormiente per duemila anni, fino all'illuminismo. Nel settecento solo la rivoluzione americana è
riuscita a dare vita a una democrazia efficiente. Durante l'ottocento i monarchici hanno combattuto
una lunga battaglia di retroguardia contro le forze democratiche. La prima metà del novecento ha visto il crollo
di tre democrazie nascenti: Germania, Spagna e Italia. Nel 1941 erano
solo 11 le democrazie rimaste, e
Franklin Roosevelt temeva di non riuscire a difendere "la grande fiamma
della democrazia dalle tenebre della barbarie".
I progressi a cui abbiamo assistito
alla fine del novecento si sono fermati con l'arrivo del nuovo secolo. Anche se il 40
per cento della popolazione mondiale (una ci- fra senza precedenti) vive
in paesi dove quest'anno ci saranno libere elezioni, l'avanzamento mondiale
della democrazia si è fermato, e forse sta addirittura regredendo. Secondo Freedom House, il 2013 è stato l'ottavo anno consecutivo in
cui la libertà globale è diminuita, dopo che aveva raggiunto l'apice all'inizio
del secolo. Tra il 1980 e il 2000
la battaglia per la democrazia ha avuto pochissime battute d'arresto, ma
dal 2000 in poi la situazione è peggiorata. I problemi del modello democratico, tuttavia,
sono più profondi di quanto non dicano le nude cifre. Molte democrazie sono scivolate verso
l'autoritarismo, mantenendo una parvenza democratica attraverso le elezioni, ma
senza i diritti e le istituzioni che rappresentano un aspetto altrettanto fondamentale
di ogni sistema democratico.
Il ritorno della storia
La fede nella democrazia s'infiamma
nei momenti trionfali come il rovesciamento di regimi impopolari al Cairo o a
Kiev, ma poi di nuovo si affievolisce. Fuori dell' occidente, il più delle volte
cresce per poi crollare miseramente. In
occidente viene sempre più spesso associata al debito pubblico,
all'inefficienza e a eccessive ingerenze nei confronti di altri paesi. Il sistema democratico ha sempre avuto i suoi
critici, ma oggi i vecchi dubbi sono di nuovo presi in considerazione perché la
democrazia mostra segni di fragilità perfino nelle sue roccaforti occidentali,
e anche la sua influenza all'esterno diventa sempre più debole. Perché la democrazia ha perso slancio?
I due motivi principali sono la
crisi finanziaria del 2007-2008 e
l'ascesa della Cina. I danni provocati
dalla crisi sono stati psicologici, oltre che finanziari: hanno svelato la
debolezza strutturale dei sistemi politici occidentali, mettendo in crisi
quella fiducia che era sempre stata una delle loro maggiori risorse. Per decenni gli stati hanno continuato a
erogare prestazioni e diritti, permettendo al debito pubblico di gonfiarsi a dismisura.
In questo modo la politica pensava di
aver abolito i cicli economici e di riuscire a controllare il rischio. Con la crisi, però, la gente ha perso fiducia
nella politica, soprattutto dopo che i governi hanno deciso di salvare le
banche con i soldi pubblici e sono rimasti a guardare mentre gli uomini d'affari
della finanza continuavano ad assegnarsi bonus spropositati. Il Washington consensus, cioè l'insieme delle politiche
economiche considerate necessarie per garantire la stabilità e la crescita, è
diventato un termine spregiativo in tutti i paesi emergenti.
Nel frattempo il Partito comunista
cinese ha spezzato il monopolio del mondo democratico sul progresso economico. Larry Summers, ex consigliere economico di Barack
Obama e presidente dell'università di Harvard, sottolinea che quando gli Stati
Uniti crescevano al massimo della velocità il loro tenore di vita raddoppiava
più o me no ogni trent'anni. Negli ultimi trent'anni il tenore di vita in Cina
è raddoppiato più o meno ogni dieci anni. Le élite cinesi sostengono che il loro modello
- un rigido controllo da parte del partito e una continua ricerca di personale
di talento da cooptare nelle sue più alte gerarchie - sia più efficiente e meno
soggetto a intoppi rispetto alla democrazia. La leadership politica si rinnova più o meno
ogni dieci anni, e c'è un ricambio costante grazie a un meccanismo che premia e
promuove i funzionari del partito sulla base della loro capacità di raggiungere
gli obiettivi stabiliti.
Chi critica la Cina condanna giustamente il
governo di Pechino per il controllo che esercita sull'opinione pubblica, con
l'arresto di dissidenti e la censura di internet. Paradossalmente, però, questa ossessione per
il controllo è la spia della grande attenzione del regime verso l'opinione
pubblica. Allo stesso tempo, i leader
cinesi sono riusciti ad affrontare molti problemi legati alla costruzione dello
stato che una democrazia impiega decenni a risolvere. Per esempio, in appena due anni la Cina ha esteso la copertura
pensionistica a 240 milioni di abitanti
delle campagne che ancora non l'avevano, una cifra superiore al totale degli
iscritti al sistema pensionistico pubblico negli Stati Uniti.
Molti cinesi sono disposti a
convivere con un sistema non democratico in cambio della crescita. Secondo il Pew survey of global attitudes del 2013, 1'85 per cento dei cinesi è
"molto soddisfatto" della direzione presa dal loro paese, contro il
31 per cento degli statunitensi. Alcuni intellettuali cinesi sono diventati
particolarmente aggressivi. Secondo
Zhang Weiwei, dell'università di Fudan, la democrazia sta distruggendo
l'occidente, e soprattutto gli Stati Uniti, perché istituzionalizza
l'immobilismo, banalizza il processo decisionale e produce leader di secondo
ordine come George W. Bush. Yu Keping,
dell'università di Pechino, sostiene che la democrazia rende
"eccessivamente complicate e futili" le cose più semplici e permette
"ai politici che sanno parlare meglio di ingannare la gente". Wangjisi, anche lui dell'università di Pechino,
osserva che "molti paesi in via di sviluppo che hanno fatto propri i valori
e i sistemi politici occidentali stanno sperimentando disordine e caos", e
che la Cina
offre un modello alternativo. Vari paesi,
dall'Africa (Ruanda) al Medio Oriente (Dubai) al Sudest asiatico (Vietnam), stanno
riflettendo seriamente su questa ipotesi.
L'avanzata della Cina appare ancora più
convincente alla luce dei risultati deludenti della democrazia dal 2000 in poi. La prima grande delusione è stata la Russia. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, sembrava
che la democratizzazione dell'ex Unione Sovietica fosse inevitabile. Negli anni novanta la Russia ha compiuto alcuni
passi in questa direzione (per quanto incerti) con Boris Eltsin. Poi, alla fine del 1999, Eltsin si è dimesso e
ha lasciato il potere a Vladimir Putin, un ex funzionario del Kgb che da allora
è stato due volte primo ministro e due volte presidente. Putin, una sorta di zar postmoderno, ha di fatto
annientato la democrazia in Russia - mettendo il bavaglio alla stampa e perseguitando
gli oppositori - ma ne ha conservato le apparenze: tutti possono votare, basta
che Putin vinca. Una serie di dittatori
in Venezuela, Ucraina, Argentina e in altri paesi hanno seguito le sue orme, tenendo
in vita una democrazia di facciata invece di sbarazzarsene del tutto, con il risultato
di screditarla ancora di più.
La seconda grande battuta d'arresto
è stata la guerra in Iraq. Nel 2003, dopo l'invasione statunitense e dopo che
le fantomatiche armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non sono state trovate,
il presidente George W. Bush ha cambiato obiettivo, presentando la guerra come una
lotta per la libertà e la democrazia. "Lo sforzo comune da parte dei paesi
liberi di promuovere la democrazia è il preludio alla sconfitta dei nostri nemici",
ha detto l'ex presidente nel discorso inaugurale del suo secondo mandato. Non si
trattava di semplice opportunismo: Bush era sinceramente convinto che il Medio Oriente
sarebbe rimasto terreno fertile per il terrorismo finché fosse stato sotto il dominio
dei dittatori. Ma il suo atteggiamento ha
danneggiato gravemente la causa democratica. Per le sinistre era la dimostrazione
che la democrazia era solo la foglia di fico dell'imperialismo americano. Per i teorici della realpolitik, il caos in
Iraq era la prova che il processo di democratizzazione promosso dagli Stati Uniti
era una ricetta per l'instabilità. Per i
neoconservatori delusi, come il politologo statunitense Francis Fukuyama, era la
dimostrazione definitiva che la democrazia non può mettere radici su un terreno
ostile.
La terza grande delusione è stata l'Egitto.
Nel 2011
il crollo del regime di Hosni Mubarak, deposto dopo un'enorme sollevazione
popolare, aveva alimentato le speranze di una ventata di democrazia in tutto il
Medio Oriente. Ma l'euforia ha subito lasciato
il passo allo sconforto. Le successive elezioni
sono state vinte non da progressisti (spaccati in una miriade di piccoli partiti)
ma dai Fratelli musulmani di Muhammad Morsi. Morsi ha interpretato la democrazia come una
sorta di partita ad asso pigliatutto, piazzando i suoi uomini in tutte le istituzioni,
attribuendosi poteri praticamente illimitati e creando una camera alta con una maggioranza
islamica permanente. A luglio del 2013 è intervenuto l'esercito, arrestando il
primo presidente egiziano democraticamente eletto e i leader dei Fratelli musulmani,
e uccidendo centinaia di manifestanti. Dopo
la guerra in Siria e l'anarchia scoppiata in Libia, è tramontata ogni speranza che
la primavera araba potesse far sbocciare la democrazia in Medio Oriente.
Nel frattempo molte democrazie nate di recente
hanno perso smalto. Dall'introduzione della
democrazia nel 1994, il Sudafrica è stato governato dallo stesso partito, l'African national congress, che con il tempo si è
sempre più concentrato sui
suoi interessi. La Turchia, che sembrava
essere riuscita a far convivere l’islam moderato con la prosperità e la
democrazia, sta scivolando verso la corruzione e l’autoritarismo. In Bangladesh, Thailandia e Cambogia i
partiti dell’opposizione hanno boicottato le ultime elezioni o ne hanno
contestato i risultati.
Tutto questo dimostra che costruire
le istituzioni necessarie per sostenere la democrazia è un processo molto
lento, e liquida definitivamente l’idea, un tempo diffusa, secondo cui basta
gettare i semi per vederla fiorire rapidamente e spontaneamente. La democrazia sarà anche “un’aspirazione
universale” come sostenevano George W. Bush e Tony Blair, ma è soprattutto
radicata nella cultura. Quasi tutti i
paesi occidentali hanno esteso il diritto di voto molto dopo l’istituzione di
sistemi politici avanzati, con servizi di qualità per i cittadini e diritti
costituzionali garantiti, all’interno di società che affermavano il principio
dei diritti dell’individuo e dell’indipendenza della magistratura.
Negli ultimi anni, tuttavia, le
istituzioni che dovrebbero rappresentare un modello per le nuove democrazie
sono diventate antiquate e inefficienti anche nelle democrazie mature. Gli Stati Uniti sono diventati sinonimo di
immobilismo: i partiti sono talmente concentrati sui loro piccoli obiettivi di
parte che hanno portato il paese sull' orlo dell'insolvenza per due volte in due
anni. Un'altra distorsione del processo
democratico è il gerrymandering, la prassi di disegnare i collegi elettorali
in modo da consolidare la posizione dei partiti e dei candidati uscenti. In questo modo si alimenta l'estremismo: i candidati
fanno appello solo ai fedelissimi del partito, di fatto scoraggiando un gran
numero di elettori. Per non parlare dei
soldi, che nella politica statunitense contano sempre di più. Migliaia di lobbisti contribuiscono a rendere più
lungo e complesso il processo legislativo, quasi sempre per garantirsi di straforo
privilegi speciali. Tutto questo contribuisce
a creare l'impressione di una democrazia in vendita, dove i ricchi hanno più potere
dei poveri, anche se lobbisti e donatori insistono nel dire che i finanziamenti
alla politica sono un modo per esercitare la libertà di opinione. L'immagine degli Stati Uniti, e per estensione
della democrazia stessa, ne esce terribilmente compromessa.
Un sistema malato
Neanche l'Unione europea è un esempio
di democrazia. La decisione di passare all'euro
nel 1999 è stata presa quasi esclusivamente da tecnici. Solo due paesi, Danimarca e Svezia, hanno tenuto
un referendum, e in entrambi i casi gli elettori hanno detto di no. I tentativi di dare una legittimazione popolare
al trattato di Lisbona, che rafforza il potere di Bruxelles, sono stati
abbandonati quando la gente ha cominciato a votare nel modo sbagliato. Nei giorni più bui della crisi dell’euro,
l’élite europea ha costretto l’Italia e la Grecia a mettere dei tecnici al posto di politici
democraticamente eletti. Il parlamento
europeo, che non è riuscito a risolvere il problema del deficit democratico
dell'Unione europea, è ignorato e disprezzato.
L'Unione è diventata terreno fertile
per i partiti populisti come il Partito perla libertà di Geert Wilders nei Paesi
Bassi e il Front national di Marine Le Pen in Francia, che dicono di difendere la
gente comune da una élite arrogante e incompetente. In Grecia, Alba dorata sta mettendo alla prova
la tolleranza delle democrazie nei confronti dei partiti neonazisti. Il progetto dell'Europa unita doveva tenere a
bada il populismo nel vecchio continente, ma lo sta di fatto risvegliando.
Perfino nelle sue roccaforti la democrazia
soffre di gravi problemi strutturali e non semplicemente di qualche acciacco. Dagli albori dell'era democratica moderna alla
fine dell'ottocento, la democrazia si è espressa attraverso gli stati-nazione e i parlamenti. Il popolo elegge i suoi rappresentanti, che
muovono le leve del potere nazionale per un periodo stabilito. Oggi questo meccanismo è minacciato sia
dall'alto sia dal basso.
Dall'alto, la globalizzazione ha
cambiato profondamente la politica dei singoli paesi. I politici hanno ceduto sempre più poteri ai
mercati internazionali e agli organismi sovranazionali, e per questo spesso non
riescono a mantenere le promesse che hanno fatto agli elettori. Organizzazioni internazionali come il Fondo
monetario internazionale, l'Organizzazione mondiale del commercio e l'Unione
europea hanno esteso la loro influenza. Tutto
questo risponde a una logica indiscutibile: un paese non può affrontare da solo
problemi come il cambiamento climatico o l'evasione fiscale. La politica nazionale, inoltre, ha risposto
alla globalizzazione limitando la propria discrezionalità e cedendo il potere a
tecnici non eletti in alcuni settori specifici. Dal 198o, per esempio, i paesi che hanno una
banca centrale indipendente sono passati da una ventina a più di 160.
Dal basso arrivano insidie
altrettanto forti. I popoli separatisti
come i catalani e gli scozzesi, gli stati indiani e i sindaci delle città
statunitensi stanno tutti cercando di sottrarre quote di potere ai governi
nazionali. Poi ci sono quelli che Moisés
Naim, del Carnegie endowment for international peace, chiama "micropoteri",
come le ong e le lobby, che interferiscono con la politica tradizionale e
rendono più difficile la vita ai suoi leader. Internet ha semplificato il processo di
organizzazione e di mobilitazione: in un mondo dove la gente ogni settimana
vota in tv per i reality show e firma petizioni con un clic, i meccanismi e le
istituzioni della democrazia parlamentare, in cui le elezioni avvengono a
distanza di anni, appaiono sempre più anacronistici. Il parlamentare britannico Douglas Carswell ha
paragonato la politica tradizionale alla grande catena di negozi di dischi Hmv,
che è fallita perché tutti ormai sono abituati a trovare la musica che vogliono
su Spotify, il popolare servizio di streaming digitale.
Il più grande pericolo per la democrazia, però, non viene
né dall'alto né dal basso ma dall'interno, dagli stessi elettori. Il timore di Platone a proposito della
democrazia, cioè che i cittadini si sarebbero ritrovati a vivere "alla
giornata, godendo del piacere del momento", si è rivelato profetico. I governi democratici si sono abituati ad
alimentare enormi deficit strutturali, indebitandosi per accontentare gli
elettori nel breve periodo e trascurando gli investimenti a lungo termine. Francia e Italia non hanno il bilancio in
pareggio da più di trent'anni. La crisi
finanziaria ha smascherato brutalmente l'insostenibilità di una democrazia
fondata sul debito.
Ora che lo stimolo economico per
superare la crisi ha esaurito i suoi effetti, la politica è costretta ad
affrontare le scelte difficili che gli anni della crescita ininterrotta e del
credito facile le avevano permesso di evitare.
Ma convincere gli elettori ad adattarsi a una nuova epoca di austerità
non è certo una soluzione popolare. Il
rallentamento della crescita e il rigore di bilancio provocheranno
inevitabilmente dei conflitti, perché diversi gruppi di interesse dovranno
competere tra loro per accaparrarsi le risorse.
Il fenomeno è aggravato dall'invecchiamento delle popolazioni
occidentali. Gli anziani, che votano in
massa e si coalizzano formando gruppi di pressione come la potentissima Aarp
negli Stati Uniti, sono storicamente più bravi dei giovani a farsi
sentire. Con il passare del tempo i
numeri saranno sempre di più dalla loro parte.
Nelle democrazie è in corso uno scontro tra passato e presente, tra
diritti acquisiti e investimenti per il futuro.
Adattarsi ai tempi duri sarà ancora più
difficile per la crescente disaffezione
alla politica. La militanza è in declino in tutto il mondo industrializzato: solo
l'l per cento dei cittadini britannici è iscritto a un partito, contro il 20 per cento del 1950. Anche l'affluenza
alle urne è in calo: secondo uno studio
condotto in 49 paesi democratici, tra il 1980-1984 e il 2007-2013 è scesa di 10
punti percentuali. Nel 2012 un'indagine
su sette paesi europei ha rivelato che più della metà degli elettori "non
aveva alcuna fiducia nel governo". Lo
stesso anno YouGov ha lanciato un sondaggio tra gli elettori britannici: per il
62 per cento degli intervistati "i politici dicono continuamente bugie".
Nel frattempo il confine tra la farsa
e la protesta diventa sempre più sfumato. Nel 2010 il Partito migliore islandese
ha preso la maggioranza relativa al consiglio comunale di Reykjavik impegnandosi
apertamente a essere corrotto. Nel 2013 un
quarto degli italiani ha votato per il partito fondato dal comico Beppe Grillo.
Questo cinismo nei confronti della politica
sarebbe anche sano se la gente chiedesse poco o nulla allo stato, ma in realtà continua
a chiedergli tantissimo. Si rischia di
creare una miscela esplosiva: dipendenza dallo stato da una parte, disprezzo per
lo stato dall'altra. La dipendenza costringe
lo stato a gonfiarsi a dismisura e a sovraccaricarsi, mentre il disprezzo lo
delegittima. Quando la democrazia s'inceppa, poi va a finire che si ammala.
La politica come Spotify
I problemi della democrazia nei paesi
in cui è più forte spiegano le battute d'arresto altrove. La democrazia ha prosperato nel novecento anche
grazie all' egemonia statunitense: tutti volevano emulare la più grande potenza
del mondo. Con la crescita dell'influenza
cinese, tuttavia, gli Stati Uniti e l'Europa non sono più considerati dei modelli,
tanto più che la loro spinta a diffondere la democrazia all'estero si è indebolita. L'amministrazione Obama sembra paralizzata
dal timore che la democrazia possa far nascere regimi canaglia e dare fiato ai
jihadisti. E perché mai i paesi in via di
sviluppo dovrebbero guardare alla
democrazia come a un modello ideale quando Washington non riesce neanche ad approvare
una legge di bilancio? Perché mai i regimi autoritari dovrebbero prendere lezioni
di democrazia dell'Europa quando le élite europee si sono sbarazzate senza tanti
complimenti di politici eletti che non hanno voluto piegarsi all'ortodossia fiscale?
Le democrazie nei paesi emergenti hanno
dovuto fare i conti con gli stessi problemi delle democrazie nei paesi ricchi. Anche loro hanno privilegiato la spesa a breve
termine rispetto agli investimenti a lungo termine. Il Brasile manda in pensione i dipendenti
pubblici a 53 anni ma ha fatto poco o nulla per creare un sistema aeroportuale
moderno. L'India foraggia vaste clientele
ma investe troppo poco nelle infrastrutture. La politica è bloccata dagli interessi particolari
ed è messa in pericolo da comportamenti antidemocratici. Lo storico britannico Patrick French fa notare
che nella camera bassa indiana ogni eletto sotto i 30 anni appartiene a una dinastia
politica. Anche tra le élite imprenditoriali
il sostegno alla democrazia si sta sgretolando: i grandi industriali si lamentano
perché la caotica democrazia indiana produce infrastrutture fatiscenti mentre il
sistema autoritario cinese produce autostrade, aeroporti scintillanti e treni
ad alta velocità.
Già in passato la democrazia ha dovuto
battere in ritirata. Negli anni venti e trenta
il futuro sembrava del comunismo e del fascismo: ne11931, quando la Spagna tornò brevemente alla
democrazia parlamentare, Benito Mussolini disse che era un ritorno alle lampade
a olio nell'era dell'elettricità. A metà
degli anni settanta l'ex cancelliere tedesco Willy Brandt pronosticò: "All'Europa
occidentale restano solo venti o trent'anni di democrazia. Poi affonderà, senza motore e timone, nel mare
della dittatura che la circonda". Oggi
la situazione non è così drammatica, ma per l'idea della naturale superiorità della
democrazia e della sua ineluttabile vittoria, la Cina è una minaccia molto più
credibile del comunismo.
Anche l'impressionante avanzata della
Cina, tuttavia, nasconde problemi più profondi. L’élite sta diventando una cerchia ristretta che
si auto perpetua e persegue solo i suoi interessi. I cinquanta politici più ricchi dell'assemblea
nazionale del popolo hanno un reddito complessivo di 94,7 miliardi di dollari,
60 volte di più dei cinquanta politici più ricchi del congresso statunitense. Il tasso di crescita della Cina è passato dal 10 per cento all'anno a meno dell'8 per cento
e le previsioni parlano di un ulteriore rallentamento: è un rischio enorme per
un regime che fonda la sua legittimità sulla capacità di assicurare una crescita
stabile.
Allo stesso tempo, come sottolineò Alexis
de Tocqueville nell' ottocento, le democrazie sembrano sempre più deboli di quanto
siano in realtà: hanno molta confusione in superficie ma anche molti punti di
forza nascosti. Il fatto di poter eleggere
politici che si confrontano su proposte alternative fa sì che le democrazie riescano
meglio dei sistemi autoritari a trovare soluzioni creative ai problemi e siano
più all'altezza delle sfide esistenziali, anche se spesso la strada per arrivare
alla soluzione migliore è tortuosa. Ma per
prosperare, sia le nuove democrazie sia quelle consolidate devono poggiare su fondamenta
stabili.
Quello che più colpisce dei fondatori
della democrazia moderna come James Madison e John Stuart Mill è il loro pragmatismo.
Consideravano la democrazia un meccanismo
potente ma imperfetto, che andava costruito con attenzione in modo da incoraggiare
la creatività dei cittadini ma anche da porre degli argini alle loro devianze. Un meccanismo che poi doveva essere continuamente
controllato, oliato, calibrato
e perfezionato. Questo pragmatismo
diventa ancora più necessario quando nasce una nuova democrazia. Uno dei motivi per cui tanti esperimenti
democratici hanno fallito negli ultimi anni è che hanno dato troppa importanza
alle elezioni e troppo poca ad altri aspetti. Il potere dello stato, per esempio, deve
essere sottoposto a controlli e vanno garantiti i diritti individuali come la
libertà di espressione e la libertà di organizzazione. Le più solide tra le nuove democrazie hanno
funzionato soprattutto perché non hanno ceduto alla tentazione del
maggioritarismo, cioè all'idea che vincere le elezioni dia alla maggioranza il
diritto di fare quello che vuole. La democrazia sopravvive
in India dal 1947 (a parte un paio di
anni di governo di emergenza) e in Brasile dalla metà degli anni ottanta per lo
stesso motivo fondamentale: entrambi i paesi
hanno fissato dei limiti al potere
del governo e hanno garantito i diritti
individuali.
Le costituzioni più robuste non solo
favoriscono la stabilità a lungo termine, riducendo così la probabilità che le
minoranze deluse si ribellino contro il regime,
ma promuovono anche la lotta alla corruzione, la spina nel fianco dei paesi in
via di sviluppo. Al contrario, il primo
segnale che una nuova democrazia si sta sgretolando arriva
quando il governo appena eletto prova a rimuovere i vincoli al proprio potere,
spesso in nome del principio di maggioranza. Morsi ha subito provato a riempire la camera
alta di sostenitori dei Fratelli musulmani. Janukovych ha ridotto i poteri del
parlamento ucraino. Putin ha calpestato
le istituzioni indipendenti russe in nome del popolo. Molti leader africani stanno cedendo al
maggioritarismo più becero, abolendo i limiti temporali del mandato
presidenziale o inasprendo le pene contro l'omosessualità, come ha fatto il 24
febbraio il presidente dell'Uganda Yoweri Museveni.
Controlli e contrappesi
I leader degli altri paesi
dovrebbero avere il coraggio di esporsi quando un governo adotta comportamenti
illiberali, anche se è sostenuto dalla maggioranza. Ma sono soprattutto gli architetti delle nuove
democrazie a dover imparare questa lezione: in una democrazia sana un sistema
di controlli e contrappesi è importante quanto il diritto di voto. Paradossalmente, anche i potenziali dittatori
hanno molto da imparare dagli avvenimenti in Egitto e in Ucraina: Morsi non farebbe la spola tra il carcere e una
teca di vetro in tribunale e Janukovych non sarebbe stato costretto a scappare,
se entrambi non avessero fatto infuriare i loro concittadini accumulando troppo
potere.
Ma anche chi ha la fortuna di vivere
in una democrazia matura deve prestare molta attenzione all'architettura del
proprio sistema politico. La
globalizzazione e la rivoluzione digitale stanno facendo apparire obsolete
alcune delle più venerate istituzioni democratiche. Le democrazie, anche le più robuste, devono
rinnovare i loro sistemi politici per risolvere i problemi interni e rivitalizzare
la loro immagine all'estero. Alcuni
paesi hanno già cominciato questo processo. Negli Stati Uniti al senato è diventato più
complicato fare ostruzionismo. Alcuni
stati hanno introdotto primarie aperte e hanno affidato a commissioni indipendenti
il compito di ridisegnare i collegi. Altre
riforme potrebbero migliorare la situazione. Una riforma del finanziamento ai partiti che
rendesse pubblici i nomi dei finanziatori ridurrebbe l'influenza delle lobby. Il parlamento europeo potrebbe chiedere agli
eletti di presentare le ricevute delle loro spese. L'Italia ha troppi parlamentari e li paga
troppo, e il bicameralismo perfetto rende difficile approvare ogni provvedimento.
Ma le riforme devono essere molto
più ambiziose. Il modo migliore per ridurre il peso degli interessi particolari
è limitare il numero delle prestazioni e dei contributi erogati dallo
stato. E il modo migliore per risolvere
il problema della disaffezione nei confronti della politica è mettere la
politica in condizione di fare meno promesse.
La chiave per una democrazia più sana, in poche parole, è uno stato più
snello, un concetto che risale alla rivoluzione americana. 'Nel delineare un governo in cui uomini
amministrano altri uomini", sosteneva Madison, "la grande difficoltà
sta nel fatto che tu devi fare in modo che il governo controlli i governati, e
che però sappia pure controllare se stesso". L'idea di un governo limitato è stata anche
alla base del rilancio della democrazia dopo la seconda guerra mondiale. La Carta delle Nazioni Unite (1945) e la
Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) hanno sancito diritti e norme
che i paesi non possono violare anche se la maggioranza lo volesse.
Questi controlli e contrappesi erano
motivati dal timore della tirannia. Ma
oggi, soprattutto in occidente, i grandi pericoli per la democrazia sono più
difficili da individuare. Uno è
rappresentato dalle dimensioni dello stato.
Con la sua espansione incontrollata, il governo sta riducendo le libertà
e cedendo sempre più agli interessi particolari. L'altro pericolo viene dall'abitudine del
governo a fare promesse che non può mantenere, o perché crea programmi
assistenziali che non può pagare o perché s'impegna in guerre che non può
vincere, come quella contro la droga.
Elettori e governi devono convincersi che è giusto porre delle
restrizioni alla naturale tendenza dello stato a espandersi. Per esempio, la decisione di lasciare le
scelte di politica monetaria alle banche centrali indipendenti ha permesso di
arginare l'inflazione galoppante degli anni ottanta. È arrivato il momento di applicare lo stesso
principio del governo limitato a uno spettro più ampio di scelte
politiche. Le democrazie hanno bisogno
dei giusti controlli e contrappesi ai poteri dei governi eletti.
I governi possono autoregolarsi in
molti modi diversi. Possono decidere di
indossare una camicia di forza dorata adottando regole fiscali severe, come ha
fatto la Svezia
impegnandosi a raggiungere il pareggio di bilancio. Possono introdurre delle speciali
"clausole di scadenza" che costringano i politici a rinnovare le
leggi ogni dieci anni. Possono chiedere
a commissioni non partitiche di proporre riforme a lungo termine. La Svezia ha evitato il collasso del sistema
pensionistico dopo che una commissione indipendente ha proposto una serie di
riforme improntate al pragmatismo, come il maggior ricorso alle pensioni
private e l'aggancio dell' età pensionabile all'aspettativa di vita. Il Cile è riuscito a gestire la combinazione
tra la volatilità del mercato del rame e le pressioni populiste a spendere il
surplus in tempo di vacche grasse. Il
governo ha introdotto regole molto severe impegnandosi a raggiungere un surplus
di bilancio e ha nominato una commissione di esperti per cercare di capire come
affrontare l'instabilità economica.
Ma cedere il potere ai migliori e ai
più bravi non è forse un modo per indebolire la democrazia? Non necessariamente. Questi vincoli auto imposti possono rafforzare
la democrazia impedendo agli elettori di votare per politiche di spesa che portano
alla bancarotta e alla disgregazione sociale e tutelando le
minoranze. Ma la tecnocrazia ha sicuramente i suoi eccessi. Il potere va delegato con moderazione, su pochi
punti importanti come la politica monetaria e la riforma dello stato sociale, e
il processo deve essere aperto e trasparente.
E la delega verso l'alto, a grandi personalità
e tecnici, deve essere bilanciata da una delega verso il basso, attraverso l'attribuzione
di una parte delle decisioni al popolo. Il
segreto è guidare le forze gemelle del globalismo e del localismo, invece di ignorarle
o di fare resistenza. Con il giusto equilibrio
tra questi due metodi, le stesse forze che minacciano le democrazie dall'alto
attraverso la globalizzazione e dal basso attraverso l'avanzata dei micropoteri
possono rafforzare la democrazia invece di indebolirla.
Tocqueville diceva che spesso la democrazia
locale rappresenta la democrazia al suo meglio: "Le istituzioni comunali
rappresentano per la libertà quello che le scuole primarie rappresentano per la
scienza: esse la mettono alla portata del popolo e, facendogliene gustare l'uso,
l'abituano a servirsene". I sindaci
hanno regolarmente un tasso di popolarità doppio rispetto ai politici nazionali. La tecnologia moderna può realizzare una nuova
versione delle istituzioni comunali di Tocqueville promuovendo la mobilitazione
civile e l'innovazione. Una iperdemocrazia
online dove tutto viene sottoposto a una serie infinita di voti pubblici farebbe
il gioco degli interessi particolari. Ma
la tecnocrazia e la democrazia diretta possono controllarsi a vicenda: commissioni
di bilancio indipendenti, per esempio, possono valutare i costi e la fattibilità
dei provvedimenti di iniziativa popolare a livello locale.
La profezia di John Adams
Diverse realtà territoriali stanno già
seguendo questa strada. Il caso più incoraggiante è quello della California. Il sistema di democrazia diretta dello stato
permetteva già ai cittadini di esprimersi su scelte come l'aumento della spesa pubblica
o l'abbassamento delle tasse, ma le primarie chiuse e i collegi manipolati attraverso
il gerrymandering avevano istituzionalizzato
l'estremismo. Negli ultimi cinque anni, però,
la California
ha introdotto una serie di riforme anche grazie agli sforzi del filantropo e investitore
Nicolas Berggruen. L'amministrazione dello
stato ha creato la commissione Think long per bilanciare la tendenza dei provvedimenti
di iniziativa popolare a risolvere solo problemi a breve termine. Ha introdotto le primarie aperte e ha affidato
a una commissione indipendente il compito di ridisegnare i confini dei collegi. È riuscita perfino a raggiungere il pareggio di
bilancio, un risultato che Darrell Steinberg, presidente del senato della California,
ha definito "quasi surreale".
Sullo stesso modello, il governo finlandese
ha incaricato una commissione indipendente dai partiti di fare proposte per il futuro
del sistema pensionistico. Inoltre sta
cercando di favorire la democrazia digitale: il parlamento è obbligato a esaminare
qualsiasi iniziativa dei cittadini che raggiunga almeno 50 mila firme. Ma serviranno molti più esperimenti di questo
tipo - in grado di conciliare tecnocrazia e democrazia diretta, delegando il potere
verso l'alto e verso il basso - se la democrazia vuole tornare a essere sana.
John Adams, il secondo presidente degli
Stati Uniti, una volta disse che "la democrazia non dura mai a lungo. Ben presto si sciupa, si esaurisce e uccide se
stessa. Ancora non c'è stata una democrazia
che non si sia suicidata". Chiaramente
si sbagliava. La democrazia è stata la grande vincitrice delle battaglie ideologiche
del novecento. Ma per continuare a prosperare
nel nostro secolo deve essere coltivata assiduamente quando è giovane e conservata
con cura nella maturità .• fas